Con Kill It and Leave This Town Mariusz Wilczynski fa del cinema d’animazione uno strumento per chiudere a chiave in un cassetto e in qualche modo conservare il proprio dolore e il trauma della perdita. Wilczynski disegna con una matita, come farebbe un bambino, un mondo tutto suo in cui il concepibile della mente umana diventa tangibile, dove il passato ritorna a bordo di un transatlantico, terribile e ripugnante, decisamente più potente di un sottile tratto di grafite.
Un mondo immaginario, quindi? Mica tanto. Wilczynski mette insieme tasselli della propria infanzia e crescita citando i fumetti pop, omaggiando e menzionando grandi nomi della cultura popolare polacca (sono un esempio le musiche di Tadeusz Nalepa e le voci di Daniel Olbrychski e Andrzej Wajda), oppure facendo risorgere su della carta da bloc-notes i genitori e il migliore amico di una vita scomparsi troppo presto. Il regista polacco, già animatore e con una cospicua filmografia all’attivo (Allegro ma non troppo, For My Mother and Me, In the Stillness of the Night), concepisce così il suo primo lungometraggio d’animazione per cui ci sono voluti dodici sofferti anni di produzione, sbattendoci in faccia senza presentazioni la sua realtà distorta, cruda e grottesca, che qui prende le sembianze della cupa cittadina di Łódź ancora in pieno regime sovietico.
Solo una manciata di stacchi al nero danno un poco di sollievo dall’incessante intervallarsi di scene di puro delirio, frutto di quello che sembra in tutto e per tutto un terrificante incubo: teste mozzate, organi umani serviti al bancone di una macelleria, corpi avvizziti dal tempo, sporcizia ovunque, violenza fisica e verbale. Eppure Wilczynski, che accompagna fisicamente lo spettatore sotto forma di gargantuesco spirito errante, ribatte più volte: “Io alla morte non ci credo”. Perché nel cassetto, o nella mente di Wilczynski, o a Łódź, se preferiamo, c’è una collezione di esperienze e di persone che sono spiritualmente ancora percepibili; il guaio è che non sono destinate a vivere ancora per molto, se non nell’immaginaria città polacca, che dopo trenta minuti circa, sentiamo anche un po’ nostra. Città che ha l’urgenza di essere cancellata e lasciata andare. È troppo deteriorata, fuori controllo, depravata: ma come fare?
Noi spettatori non dobbiamo fare altro che assistere e partecipare a questo viaggio visivamente impressionante, dove i colpi veloci di una penna biro e una matita esplodono in una collisione di tumulti espressionisti ispirati quasi certamente ai quadri di Otto Dix e George Grosz. Laddove, poi, si è permeati da una vasta quantità di gradazioni di blu e grigio piombo, talvolta compaiono scritte al neon, lampadine appannate, catene luminose e lampadari flebili, simbolismo di una piccola via d’uscita dalla tetra Łódź che però non compete con la densità di buio che infesta l’animo di Mariusz Wilczynski. Bisogna viverla e ricordarla questa città, prima di ucciderla e andare via per sempre.