Al momento di soddisfare le timorose aspettative verso il nuovo film di Yorgos Lanthimos ci troviamo probabilmente di fronte al suo lavoro più oscuro ed enigmatico. Sospettavamo che i suoi temi sarebbero rimasti presenti così come il suo tono spiazzante, allucinato e provocatorio, ma piuttosto che soffermarsi sulla sua tematizzazione disinvolta del sesso, la derisione dei meccanismi di potere, l’osservazione della ridicola caparbietà e ottusità degli uomini, questo film è forse l’occasione per fermarsi a riflettere più sulla forma di questi racconti.

Il film è infatti composto da tre episodi dalla considerevole durata, tale da farli rientrare a pieno titolo nella categoria dei mediometraggi. Categoria che mi sento di scomodare in questa analisi poiché le tre storie, che condividono il cast, sono sostanziali e autoconclusive. Ci viene lasciata solo un’ambigua parvenza di legame, che dipende soprattutto dalla presenza del misterioso personaggio R.M.F. che compare in tutti gli episodi, persino nel titolo di ognuno, e compie una curiosa parabola a ritroso dalla morte alla vita.

Tornando al mediometraggio, di fatto Lanthimos e lo sceneggiatore Efthymis Filipou si servono di un formato che per la sua natura è limitante: in 45 o 55 minuti non è infatti possibile raccontare tutte le caratteristiche di un universo narrativo né raccontare l’arco di un personaggio e al tempo stesso si perde la sintetica pregnanza propria dei buoni cortometraggi. Lanthimos sceglie una forma del racconto che ci permette di entrare in un contesto e di concatenare un buon numero di eventi incorniciati da due turning point, il secondo dei quali però coincide con la conclusione. Non vi è quindi scioglimento, non vi è il ritorno all’ordine iniziale.

È molto interessante che si sia scelto di adottare questa modalità che da un punto di vista strettamente di sceneggiatura è evidentemente limitante: non abbiamo il tempo di comprendere tutti i meccanismi che regolano la setta del terzo episodio o come il personaggio di Emma Stone vi sia entrata; non abbiamo modo di approfondire la sparizione della stessa nel secondo episodio e di comprenderne la deviazione cannibale; a riempire la tensione di Jesse Plemons verso l’abbandono del suo dispotico boss ci sono le elucubrazioni che lo spettatore ha tutto il tempo di costruire. Sono incredibilmente fumosi i confini di questi mondi che Lanthimos tratteggia con la totale libertà che ha acquisito: sono “sweet dreams”, come preannunciato dalla canzone degli Eurythmics che ha animato il trailer e che apre la pellicola.

I sogni ritornano in tutti e tre gli episodi, così come le scarpe stringate e l’ossessione per il cibo, ma soprattutto ritornano in maniera insistente i primi piani di profilo dal basso. Già in Povere creature! questo tipo di piano, mai ricondotto a punti di vista interni alla messa in scena, ritornava copiosamente, spesso accompagnato da lenti zoom avanti, ma in questo film la loro presenza è talmente abbondante da risultare quasi uno stress test. Spariscono i grandangoli, restano i carrelli kubrickiani, esondano questi primi piani laterali dal basso accentuati dalla fotografia contrastata e buia, la più scura che si sia mai vista nella sua filmografia.

La libertà che Lanthimos si è giustamente conquistato viene investita in un interessante esercizio dove alcune delle modalità di rappresentazione del regista vengono scritte e riscritte provando delle varianti. Senza spostarsi dal suo naturale baricentro (siamo difatti a un ritorno al suo cinema “greco”), Lanthimos continua un percorso di sperimentazione teso tra familiarità e diversione. Fa l’hula hoop? Potrebbe essere una metafora calzante?