Volendo schematizzare, possiamo dire che ci sono due correnti fondamentali nel cinema di Marco Bellocchio, imprescindibili l’una dall’altra e in continua simbiosi: da una parte c’è il Bellocchio politico e sociologico (da Sbatti il mostro in prima pagina ai più recenti Il traditore e Esterno notte), dall’altra c’è invece il Bellocchio più marcatamente psicanalitico – quello forse predominante, da Gli occhi, la bocca e Enrico IV fino al contemporaneo Fai bei sogni. Si parlava però di una distinzione piuttosto scolastica e da intendersi più che altro a fini esplicativi, poiché i due filoni sono inscindibili e oggetto di continue intersezioni, visto che nel suo cinema la psiche permea sempre la società e viceversa, in un percorso di ribellione sociale e individuale.
Il cinema di Bellocchio è infatti, per eccellenza, l’apologo italiano della rivolta, della rabbia, della contestazione al Potere costituito: un cinema nato come una sorta di Nouvelle Vague italiana e che è proseguito libero e indomito da oltre mezzo secolo con la consueta verve artistica, facendo di Bellocchio il più grande regista italiano vivente. A proposito di intersezioni fra le due correnti di cui si diceva, basti pensare all’esordio nel lungometraggio con I pugni in tasca, fino a Diavolo in corpo – emblema degli anni di piombo e dei loro strascichi – e alle riletture psicanalitiche di eventi come il caso Moro (Buongiorno, notte) e il fascismo (Vincere). Due tematiche scottanti e ricorrenti nel cinema di Bellocchio riguardano poi due istituzioni intoccabili per la cultura italiana, e che proprio per questo il regista cerca di scardinare, o per lo meno di mostrare sotto una luce più razionale e meno bigotta, cioè la famiglia e la religione: ed è proprio in uno dei suoi film più riusciti e importanti, L’ora di religione (2002), che Bellocchio riesce a trattare entrambi con il tono profondo e graffiante che lo contraddistingue, sempre con un occhio alla psicanalisi e uno alla società.
Scritto come di consueto dallo stesso Bellocchio, il film – conosciuto anche sol sottotitolo Il sorriso di mia madre – ha come protagonista Ernesto Picciafuoco (Sergio Castellitto), un pittore in crisi coniugale che si sta separando dalla moglie Irene (Jacqueline Lustig), e il cui matrimonio è tenuto in piedi soprattutto dall’amore per il figlio, il piccolo Leonardo. La madre dell’uomo fu uccisa tempo prima dal figlio Egidio, malato di mente e bestemmiatore, e già da tre anni gli altri due fratelli, Ettore ed Erminio, hanno intrapreso il processo di santificazione presso la Chiesa, mentre Ernesto – in quanto non credente – ne è stato tenuto all’oscuro. Ora però c’è bisogno anche di lui, per cui l’artista deve recarsi da un cardinale affinché possa deporre la propria testimonianza. Al processo di canonizzazione della donna partecipa anche tale Filippo Argenti, un uomo che è ritenuto miracolato dalla medesima. Per Ernesto Picciafuoco inizia così un breve ma intenso percorso interiore, mentre fa la conoscenza di un nobile decaduto che lo sfida a duello, e dell’insegnante di religione del figlio, Diana Sereni (Chiara Conti). Ognuno cerca di portare Ernesto dalla propria parte, ma l’uomo compirà una scelta profondamente coerente con sé stesso.
Alcuni anni prima del più ermetico e sacrilego Gli arcangeli di Simone Scafidi, ci ha pensato il solito rivoluzionario Bellocchio a portare una ventata di aria nuova sul vetusto argomento della religione, sul quale in passato era stato detto di tutto e di più, ma quasi sempre in un contesto classico e conformista: un tabù difficile da mettere in discussione per la cultura e il cinema italiano, ma su cui il Nostro aveva già dato un notevole contributo con Nel nome del padre (1972), grottesca rappresentazione della ribellione di un gruppo di studenti tanto verso i genitori (un altro tema-cardine del regista) quanto verso la scuola cattolica che frequentano. Trent’anni dopo, Bellocchio riprende in mano i fili del discorso e realizza un film forse più sottile e meno appariscente – anche se la scena della bestemmia ha suscitato, e continua a suscitare, scalpore: un film dove la critica all’istituzione religiosa non si manifesta tramite i toni esasperati del grottesco (pensiamo alle esibizioni blasfeme degli studenti, come il cadavere del sacerdote portato a spasso per il collegio), né tramite la rievocazione storico-psicanalitica dell’Inquisizione che avevamo visto ne La visione del sabba (1988).
Quella de L’ora di religione è una storia umana che possiamo sentire vicina a noi, una storia fatta di rapporti umani e contrapposizioni ideologiche, fra epifanie e momenti catartici, una vicenda che verrebbe da dire quasi “comune” (anche se “comune” non lo è del tutto), ma nella quale comunque possiamo identificarci in uno o più personaggi a seconda del nostro sistema di pensiero – perché il cinema di Bellocchio è costantemente pedagogico e foriero di riflessioni. È un’indagine religiosa e psicologica (ma con Bellocchio è più corretto dire “psicanalitica”, poiché sono ben note le teorie che il regista adotta dallo psichiatra e psicoterapeuta Massimo Fagioli) che il protagonista – un Sergio Castellitto in stato di grazia, e che tornerà a lavorare con Bellocchio ne Il regista di matrimoni – incarna con una credibilità e uno spessore quasi commoventi, e restituendo una spiritualità così profonda che sembra incredibile per un ateo.
Una peculiarità disarmante de L’ora di religione è proprio quella di saper trasmettere un così forte sentimento spirituale pur essendo un film, sostanzialmente, di critica alla religione – anche perché Bellocchio mette in discussione soprattutto le istituzioni religiose, non la fede religiosa: è un film che profuma di incenso in ogni inquadratura, realizzato con uno stile quasi minimalista e basato tutto sui dialoghi, intercalati da musiche auliche e vocalizzi sacrali, eppure così potente e in grado di arrivare dritto al cuore dello spettatore, esprimendo un forte e doloroso bisogno di spiritualità. Del resto, lo insegnava già Alessandro Manzoni ne I promessi sposi: se i ricordi liceali non traggono in inganno chi scrive, un passo del romanzo recitava, in buona sostanza, che c’era una spiritualità maggiore nel castello dell’Innominato, durante la sua conversione, rispetto al convento della Monaca di Monza. Il che stava a significare che spesso la profondità religiosa e la natura autentica della fede non vengono da chi le professa per mestiere (le corrotte badesse), ma da chi le vive tra i tormenti dell’anima (l’Innominato, appunto, che trova nel pentimento e nella conversione una nuova sorgente di vita).
Allo stesso modo, mutatis mutandis, Ernesto Picciafuoco – un ateo convinto, uno che ripete più volte di non credere in Dio – ha modo di intraprendere, durante il periodo della storia narrata (che ricopre un lasso di tempo relativamente breve), un percorso interiore di maturazione e spiritualità: un percorso che non lo porta a cambiare le proprie idee – poiché il finale, nonostante sia abbastanza aperto, lo mostra mentre porta il figlio a scuola, invece di recarsi alla tanto raccomandata udienza dal Papa, raffigurata in pompa magna – ma sicuramente lo conduce a un arricchimento interiore che prima di allora non aveva mai vissuto. Al contrario, coloro che si mostrano più interessati alla santificazione della madre sono i fratelli e una zia (Piera Degli Esposti, che ci regala un’altra performance da antologia), per i quali la tanto aspirata canonizzazione non è un autentico atto di fede, quanto piuttosto un meschino tentativo di riportare fama e prestigio a una famiglia un tempo importante ma ora decaduta. “L’immensa fortuna di avere una madre santa”, afferma cinicamente la zia, che ha allestito rappresentazioni e paramenti sulla donna da santificare, e invita Ernesto a convertirsi al cattolicesimo, sostenendo a sua volta di essere credente solo per una sorta di assicurazione sull’aldilà.
Nella risposta di Ernesto sulla necessità di dover “mandare a fare in culo” i genitori (lui ritiene la madre una donna stupida) c’è tutta la contestazione di Bellocchio alla famiglia, l’incitamento alla ribellione che torna in ogni suo film, e che trova la propria ragion d’essere nella sua convinzione che la famiglia (intesa in senso tradizionale e conformista) sia un’istituzione disfunzionale: ed è sufficiente vedere alcune scene di vita casalinga, come la cena consumata in silenzio, per notare il disagio che Bellocchio fa trasudare dalle mura domestiche. Così come non è una novità la totale assenza della figura paterna, cioè il padre dei fratelli Picciafuoco: il quale, essendo l’emblema del Potere e dell’ordine costituito, non è mai neanche nominato, come accadeva ne I pugni in tasca.
Il vero ago della bilancia che possa stabilire se la donna (mai chiamata per nome, quasi come fosse un’entità fantasmatica) possa essere o no fatta santa, è paradossalmente il suo presunto assassino (Donato Placido, fratello del più celebre Michele), cioè Egidio, il malato di mente. Perché, come spiega il cardinal Piumini (Maurizio Donadoni) – uno tra i personaggi più religiosamente autentici del film, che siede da povero insieme ai poveri – la santità può essere proclamata soltanto se è accertato che la madre fu uccisa da Egidio poiché lo esortava a non bestemmiare, dunque non per una semplice demenza, e soltanto se la donna lo perdonò in punto di morte, poiché non può esserci martirio senza perdono. A tale scopo, i fratelli Ettore (Gigio Alberti), cioè il medico che ha in cura Egidio nell’ospedale psichiatrico, ed Erminio (Gianfelice Imparato), fanno di tutto affinché Ernesto incontri l’omicida e ne possa ricavare qualcosa, visto il particolare ascendente che esercita su di lui. Ma la risposta che il protagonista ottiene, al termine di un accumulo di rabbia sedimentato negli anni e reiterato nel film attraverso l’immagine di un Placido furioso e disperato, è una doppia bestemmia urlata con tutto il fiato in corpo, al termine della quale i due fratelli si abbracciano calorosamente, in lacrime e con un affetto ritrovato dopo tanto tempo.
La scena fece scandalo (anche se non vietò l’assegnazione del premio della giuria ecumenica a Cannes), ma l’uso della bestemmia ha una precisa funzione catartica, cioè una sorta di liberazione da un peso interiore che gravava su Egidio da tempo immemore: ed Ernesto è l’unico a cogliere l’espressione blasfema come l’urlo liberatorio di un uomo prigioniero della propria disperazione. Non è una novità che Marco Bellocchio presti particolare attenzione al tema della malattia mentale (vedasi anche la breve apparizione del personaggio interpretato da Pietro De Silva), dal documentario Matti da slegare (co-diretto con Silvano Agosti e altri) fino a opere come Salto nel vuoto, Enrico IV e Diavolo in corpo: lo sguardo del regista è illuminato e moderno, per cui la pazzia non deve essere vissuta come una colpa – del resto, come diceva Vittorio Gassman in Anima persa, i matti vengono rinchiusi perché “conoscono la verità” – ma come una malattia da curare. E nel film non viene volutamente chiarito se fu effettivamente Egidio a uccidere la madre né per quale motivo, a differenza di un'altra struggente pellicola di Bellocchio, Fai bei sogni (2016), dove torna la perdita della figura materna in un processo di maturazione e disvelamento della verità tramite la scoperta del suicidio – i rapporti familiari, nel cinema di Bellocchio, sono sempre tormentati.
L’ora di religione del titolo possiede un significato ambivalente, poiché indica sia l’insegnamento religioso che il figlio apprende a scuola (più volte espresso nel corso del film), sia – fuor di metafora – il percorso che Ernesto si trova a dover compiere, da ateo, fino a veder vacillare le proprie convinzioni. Ma anche la figura del bambino, Leonardo (Alberto Mondini), è fondamentale nello sviluppo della storia, poiché funge quasi da coscienza per il padre, con tutte le domande che gli pone su Dio, l’aldilà e la morte, domande che innescano inevitabilmente un turbamento nel genitore, nonostante si sforzi di non darlo a vedere. Del resto, la scena iniziale è occupata interamente dalla moglie Irene e dal piccolo Leonardo, che sostiene di parlare con Dio invitandolo a stare lontano da lui in quanto lo priverebbe della libertà – e qua si potrebbero fare lunghe dissertazioni filosofiche sul rapporto tra religione e libero arbitrio; motivo per cui il bambino non è tanto lontano da Christian, il suo coetaneo che vediamo nelle scene iniziali del suddetto film Gli arcangeli: un personaggio che compie un gesto provocatorio e mai chiarito all’interno di una chiesa, prima testimonianza di un profondo bisogno religioso e spirituale espresso con un paradosso, e che in età adulta andrà man mano cozzando con una vita “sporca”, sempre in bilico fra peccato e ricerca di redenzione.
Leonardo non è stato battezzato, per una precisa volontà del padre, e questo viene visto un po’ da tutti come una colpa (come vediamo nel dialogo col cardinal Piumini, che dimostra di essere ben informato sulla famiglia Picciafuoco): ed è per cercare di porre rimedio a questa onta che la madre, verso la fine del film, provvederà lei stessa a una sorta di battesimo profano, nel quale ben si incarnano le due anime dell’opera – quella cattolica e quella atea. Nonostante l’ateismo del padre, a Leonardo è stato concesso di partecipare all’ora di religione scolastica: ed è proprio cercando di parlare con l’insegnante di religione del figlio che Ernesto conosce Diana Sereni, in apparenza la docente, in realtà una simulatrice che si spaccia per lei, chissà per quale scopo – forse per un semplice interesse nei confronti dell’uomo. La criptica figura di Diana, che entra in scena recitando la poesia Eppure questo non basta di Arsenij Tarkovskij, ritorna più volte durante la vicenda, sempre con un coté misterioso e quasi fantasmatico: entra ed esce dallo studio dove l’uomo dipinge senza farsi vedere, diventa la sua amante per un giorno (come gli aveva consigliato la zia) e – proprio come un fantasma (la coscienza di Ernesto?) – esce di scena in silenzio.
Nel frattempo, altri personaggi bizzarri e indecifrabili fanno da contorno alla vicenda. In primis, la figura del conte Bulla (Toni Bertorelli), un nobile decaduto e nostalgico della monarchia, che Ernesto conosce in un salotto che pare uscito da una versione ante litteram de La grande bellezza, con figure grottesche che compaiono sulle note di Vinicio Capossela – e non è l’unica scena in tal senso, vedasi la processione notturna di suore in giro per la città che tanto richiama il cinema di Fellini e di Sorrentino. Il conte Bulla, sentendosi offeso dallo scetticismo del Picciafuoco sulle sue posizioni monarchiche, lo invita a sfidarlo a duello con il fioretto, salvo poi rinunciare mentre la singolar tenzone sta per avere inizio: è una di quelle figure che appartengono al Bellocchio più misterioso e grottesco (quello di Sangue del mio sangue, per intenderci), un uomo decaduto come la famiglia Picciafuoco, e che ancora una volta ci mostra un Potere ormai crollato e senza più ragione di esistere.
Così come è singolare il personaggio di Filippo Argenti (Gianni Schicchi) – da notare la citazione colta, poiché il nome deriva da uno dei dannati collocati da Dante Alighieri nell’Inferno, dove si trova nel girone degli iracondi: un rozzo popolano, estraneo al ricco lignaggio della famiglia Picciafuoco, ma che viene sfruttato e tenuto buono dai fratelli per la santificazione, in quanto l’uomo è ritenuto (o si ritiene) un miracolato per invocazione della donna martirizzata. Ancora una volta, il cinico opportunismo si scontra con la fede, per cui il personaggio più religioso – paradossalmente – risulta essere proprio l’ateo Ernesto, col proprio travaglio interiore e col suo bisogno malcelato di spiritualità che gli fa compiere un sofferto percorso di crescita, inizialmente controvoglia, poi con un fervore e un interesse sempre crescenti.