2014, la stanza di un provino è vuota ma coperta dal green screen. All'aspirante attrice Gabrielle è chiesto di simulare alcune azioni: avvicinarsi a un tavolo, afferrare un inesistente coltello, provare terrore per qualcosa di indecifrabile, infine, urlare. Ora siamo in una lussuosa villa borghese, Gabrielle la custodisce per i veri padroni così da racimolare qualche soldo. È spaventata dalla premonizione da parte di una veggente trovata sul web di un grande pericolo in arrivo. Fuori si aggira uno sconosciuto, suona l'allarme: Gabrielle si avvicina a un tavolo, afferra terrorizzata un coltello, infine, urla.
Che cosa vuole dire recitare nella cancellazione del set, della materialità degli oggetti scenici? Che non c'è bisogno di altro se non semplicemente di un corpo per evocare una presenza. Un corpo può essere rimediato, fatto riapparire dove non era. È possibile manovrarlo, anche contro la sua volontà, senza che neanche che questi si possa rendere conto del potere che gli viene esercitato. Ma non è già lo spaesamento, nella sua indeterminatezza di sentimento, un essere senza mondo, senza set?
L'assenza di set ha fatto sì che non ci fosse bisogno di un altro che risponda al corpo, che lo incontri, perché l'incontro può benissimo essere riprodotto “post-prod”. Il “patico” può essere riprodotto dal corpo senza che qualcuno lo solleciti. L'emozione può essere quindi riprodotta, non “sentita”. Il che vuol dire che bisogna controllarla e rigettare al tempo stesso quell'emozione che non si vorrebbe riprodurre. Ma che bisogno c'è del provare l'emozione se “basta” riprodurla? Non è il digitale che ha inventato la perdita del corpo, il suo non sentirsi più “patico”, ma certamente oggi si vive in una condizione di generalizzato spaesamento che il digitale, nella possibilità della cancellazione del set e dell'incontro con l'altro, favorisce.
2044, l'intelligenza artificiale ha sollevato l'umano da molti bisogni, ma la disoccupazione è alta, bisogna che l'uomo sia performativo, non “preso” dal suo corpo, dalle proprie emozioni. Un controllo sul corpo che copre un fondo d'apocalisse, di cui l'indeterminato sarebbe espressione in quanto bestia. Una Gabrielle identica a quella del 2014 si immerge in una vasca per purificare il proprio DNA dalle emozioni. Per farlo deve rivivere le sue vite precedenti, il suo grande amore e le paure che gli generano la sua presenza. Ma la tecnologia non è perfetta, così nel rivivere i traumi si innestano glitch, errori di sistema. O, meglio, errore di un sistema che crede di poter assegnare all'altro il ruolo della bestia. Nel 2014 l'uomo entra in casa e Gabrielle, dispensandosi da ogni sua paura verso l'altro, si concede a lui.
Dall'inizio della pandemia combattere il coma emozionale sembra essere diventato il nuovo progetto di Bertrand Bonello. Un progetto che trova il suo set nella casa, spazio apparentemente rassicurante ma di esercizio silenzioso di controllo sui corpi. Rispetto all'egemonia del pensiero distopico Bonello risponde con una pedagogia del negativo per riattivare un desiderio anestetizzato. Se Coma è una lettera d'amore alla figlia isolata nella pandemia, La bête è un melodramma che nella ritualizzazione scenica di una casa ritrova la possibilità di un'intrusione, di un incontro gratuito con l'altro.
Ma lo ritrova soprattutto nell'incontro dello spettatore con il corpo di Léa Seydoux, nel patimento per il suo scontro corporeo con la rimediazione digitale, uno scontro che supera epoche per darsi ancora come seme del desiderio.