Con la leggerezza e la gravità che possono convivere forse solo in un ottantenne, Denys Arcand realizza un film miracolosamente in bilico tra commedia e dramma, delicatamente ondivago tra i due principali registri di interpretazione e narrazione della vita. La caduta dell’impero americano è la sua personale presa d’atto dell’epocale processo di cambiamento vissuto dalle società del ricco occidente negli ultimi vent’anni, che vede due fenomeni l’un l’altro collegati plasmare in senso regressivo le vite di nordamericani ed europei: l’accrescersi della forbice fra poveri e ricchi nell’inesorabile corrosione del ceto medio e lo svincolarsi della condizione economica dell’individuo dal suo livello di istruzione.

La mano di Arcand, che firma regia e sceneggiatura, è però rassicurante, pacata, e soprattutto priva dell’amarezza e della rabbia cui le circostanze messe in scena, tratte da episodi di cronaca sparsi da lui assemblati nella stesura del film, potrebbero dar luogo. Da un lato il regista canadese riscontra seraficamente che al cittadino modello, colto e consapevole, non resta oggi che il crimine per affermare se stesso e le proprie qualità, paradosso analogo a quello che muove il grande racconto americano di Breaking Bad. Dall’altro, lo stile controllato di chi padroneggia il mestiere con sicurezza da veterano e la scrittura divertente e mai approssimativa lavorano all’unisono per una scorrevolezza di racconto che è parente stretta di quella dell’Assayas de Il gioco delle coppie, e per un alimentarsi reciproco fra quella leggerezza e gravità di cui si diceva più sopra che rimanda ad un altro grande ottantenne del cinema, Woody Allen.

Pierre-Paul ha 36 anni, un dottorato in Filosofia, un appartamento zeppo di libri e poca dimestichezza con le donne, usa una macchina ibrida a noleggio e dedica il suo tempo libero ad un’associazione di aiuto ai senza tetto di Montreal. Per mantenersi fa il fattorino, perché “fare il fattorino rende più che fare il professore”, e guida il furgone per le consegne in braghe e calzettoni da boy-scout e con l’espressione di chi, ovunque sia, ci è capitato per caso. Un giorno assiste, non visto, ad una rapina che sfocia in un bagno di sangue, ed approfitta dell’occasione per fare suo il malloppo. Il piano è quello di riciclare la montagna di denaro sporco sottratto ai rapinatori, e per realizzarlo si fa dare una mano da un professionista del mestiere appena uscito di galera e prossimo alla laurea in Economia aziendale, da una bellissima e coltissima squillo d’alto bordo e dal migliore speculatore finanziario di Montreal, fra i clienti più facoltosi ed anonimi di quest’ultima.

Laddove il Sébastien di Le invasioni barbariche, che valse l’Oscar ad Arcand nel 2004, sperimentava un passaggio intimo e segreto da una vita improntata all’accumulo di denaro all’apertura al proprio lato umano e solidale, in contemporanea al crollo delle Torri gemelle e grazie alla malattia terminale del padre, Pierre-Paul vent’anni dopo arriva a cose fatte, a cambiamento avvenuto. Il mondo, ci dice Arcand, non ha più spazio oggi per quel tipo di trasformazione, e a fatica il singolo, mai così solo, può al massimo provare a ritagliarselo e per di più con mezzi illeciti, in un percorso alla rovescia che è l’esito di un capovolgimento morale che ci riguarda tutti.  

Il film indugia a lungo su esterni di strade, giardini e grattacieli di un’assolata Montreal, e fa entrare ed uscire a più riprese i personaggi dagli aspetti più seri a quelli più caricaturali di sé, tanto da farci dubitare a lungo di averne compresa l’intima natura. Complici un montaggio invisibile ma deciso e una colonna sonora usata con il contagocce a mero commento beffardo o grave di alcuni snodi narrativi, spesso ci si chiede se Pierre-Paul sia ingenuo al limite dell’idiozia oppure il più intelligente di tutti, se Aspasia del tutto immersa nel proprio ruolo di squillo o sincera nell’aiuto a Pierre-Paul, se i due agenti della polizia alle calcagna della gang duri tutti d’un pezzo o confusi quanto noi nell’orientarsi in un sistema di valori completamente a pezzi. Lo sguardo di Arcand, però, ci soccorre per toglierci dal dubbio, sintesi dei tanti che angosciano la nostra epoca, imponendo la compassione e la solidarietà come risposte al declino in cui siamo precipitati da quando il denaro è diventato, con la complicità di tutti, l’elemento centrale e costitutivo delle società contemporanee.

Come dire: ottant’anni, sì, ma non sentirli.