Togliendoci ogni dubbio, i titoli di testa presentano Esterno notte come una serie di Marco Bellocchio. Poi, è chiaro, il fatto che sia distribuito in due parti nelle sale cinematografiche rende il tutto più sfuggente, benché il tema non sia quello di nobilitare una serie accreditandola come film. La rivelazione è nella preposizione di: Esterno notte è di Bellocchio. Gli appartiene completamente.
Quanti sono, oggi, gli autori italiani che possono rivendicare qualcosa del genere, superando le diatribe su formati e destinazioni? A livello storiografico, potremmo dire che Bellocchio si riallaccia alla Rai degli anni Settanta (una radio ci informa che Francesco Rosi si accinge a trasporre Cristo si è fermato a Eboli “sia per il circuito cinematografico che per quello televisivo”) e si colloca nel solco riaperto da Paolo Sorrentino sul concetto della centralità dell’autore contro prevalenza dello showrunner.
Ma, com’è tipico del nostro autore più giovane e ribelle (82 anni e non sentirli), Bellocchio sposta in avanti il discorso, alza l’asticella dell’ambizione, sfodera una libertà sempre sorprendente e una impareggiabile padronanza dei mezzi. Ma sarebbe un po’ riduttivo per quanto interessante ragionare su questi aspetti, perché è una serie (un film in due parti, chiamatelo come vi pare) che scandaglia il trauma della storia repubblicana mettendo al centro i traumi personali dei protagonisti, convoca i fantasmi del passato che ancora infestano il presente, interroga l’inconscio di una nazione a cui piace – come sostiene il consulente americano – trovare sempre una seconda lettura alle cose evidenti.
Quando fu premiato con la Palma d’onore a Cannes, Sorrentino disse che ogni nuovo film del regista de I pugni in tasca pone una domanda: “In quale fase della guerra si trova Bellocchio?”. Ecco, Esterno notte è un film che arriva dopo la guerra, una meditazione sull’odio, una terapia. Non sveliamo niente di nuovo dicendo che il caso Moro è la grande ossessione del suo cinema, un labirinto come lo sono i cimiteri e come lo è quella città solenne e ingannevole che è Roma, la ricerca disperata di una verità che appare irraggiungibile. Come Nicola Lagioia ne La città dei vivi, Bellocchio sa di essere un sopravvissuto che, per caso o per desiderio, si è salvato dalla guerra restandovi però ferito nell’anima.
I primi tre episodi di Esterno notte sono il controcampo di Buongiorno, notte, con l’incipit utopico che vede il prigioniero liberato che dialoga con il finale nel suo capolavoro di quasi vent’anni fa. Stavolta Aldo Moro lo conosciamo libero, consapevole della gravità del presente, convinto di dover perseguire un obiettivo collettivo che è anche un capolavoro personale. “Ho parlato per un’ora e dieci minuti senza mai nominare la parola comunismo” dice, con una certa soddisfazione, dopo aver persuaso le varie correnti democristiane a sostenere il governo sostenuto esternamente dei comunisti.
Attraverso la figura di Moro incarnato da un impressionante Fabrizio Gifuni (la cadenza pugliese, gli intercalari, le pieghe della bocca), Bellocchio mette in luce l’irrequietudine di un uomo al bivio che non trova pace nell’ambiente domestico (l’insonnia non placata dai tranquillanti, lo studiolo come guardiola per il rientro dei figli, le valvole del gas chiuse forse anche per evitare sprechi o tragedie evitabili, il nipotino portato nel lettone con la moglie comprensiva). Lo fa non solo evocando il senso della predestinazione al calvario ma anche individuando nell’avventura del suo corpo messo alla prova una cartina di tornasole per misurare le angosce delle persone che lo circondano.
A partire, appunto, dalle parole. La sua mitologica oratoria fluviale si oppone alla retorica tronfia dei comunicati della Brigate Rosse, ma anche alle freddure ciniche di Giulio Andreotti, vero villain del racconto, e sembra depotenziare le “parole che non si usano più” usate da Paolo IV. Indicativo è il ribrezzo provato da Francesco Cossiga, un enfant prodige che elenca titoli e competenze quasi a sottolineare ulteriormente la sua sconfitta storica e politica, di fronte al vocabolario gretto e grezzo delle Brigate Rosse, ma anche la telefonata del Papa al misterioso monsignor Curioni, il prete che tratta con i brigatisti e quindi sa parlare con loro, è un passaggio che evidenzia la tragedia della solitudine, dell’impotenza, dell’incomunicabilità.
Non a caso Cossiga e Paolo VI sono i protagonisti di due episodi che fanno emergere punti di vista che sono anche altrettante vie crucis: l’uno, insonne, asserragliato dentro un Palazzo pieno di spie e in un inconscio devastato da allucinazioni e vergogne; l’altro, praticamente inappetente (non come il più realista Andreotti che chiede pasta al pomodoro: “dobbiamo comunque nutrirci”) e sul ciglio della morte, stretto col cilicio, disposto a tutto per salvare un amico e in qualche modo anche se stesso.
Fausto Russo Alesi, in stato di grazia, dimostra quanto Cossiga – figura tragica, pirandelliana più che shakespeariana – aspettasse solo di incontrare un Bellocchio in grado di capirne la catastrofe interiore che si riverbera nelle macchie della vitiligine. Il suo episodio è un capolavoro assoluto di tutta l’opera del regista, un crocevia grottesco, lisergico, struggente delle sue ossessioni: il potere che svela la meschinità nascosta dai simboli (bandiere, uniformi, stanze), la psicanalisi per cercare vie di salvezza nelle esperienze oniriche (l’intercettazione dei sogni rivelatori degli italiani, il medico nella war room con i generali fascisti e felloni, il credito dato a un veggente), i matti da slegare che diventano un nostro specchio deformato. Se nei primi episodi Moro appare più che mai un padre, di famiglia e della patria, destinato a essere ucciso durante la rivoluzione, si deve anche a Cossiga, figlio che non sa farsi padre mentre assiste impotente al parricidio.
Un’impotenza che traspare anche nella sofisticata e sapiente caratterizzazione di Toni Servillo, che supera i dubbi di un apparente miscasting: per interpretare il minuto, provato, anziano pontefice, si fa ieratico e iconico ed esalta tutta la teatralità del gesto affaticato, della voce modulata, della presenza solenne, dell’eloquio ricercato. È lui che immagina la Passione di Moro, nella Roma antica ricostruita a Cinecittà, con il prigioniero che sorregge quella croce che lui, vicario di Cristo, non sa più portare, e il codazzo di notabili democristiani che assiste impenetrabile al patimento senza volersi sporcare le mani.
È l’immagine più potente di un film – della prima parte di un film, dei primi tre episodi di una serie: leggi sopra – scomodo, spiazzante, travolgente. Una calata negli abissi della nazione, una seduta spiritica, la ricostruzione di un dolore e probabilmente un capolavoro destinato a restare nella storia del nostro cinema recente.