Anni Settanta. Jack (Matt Dillon) è un ingegnere che costruisce la sua casa ideale mentre uccide ferocemente, perché è anche un serial killer che vuole realizzare la più artistica composizione mortuaria della storia. Seligman, la figura assolutoria che (s)confessa Joe in Nymphomaniac, a un certo punto del film dice che il discorso della donna è carico di umorismo; curioso che, in realtà, ad essere ridicole siano invece le digressioni del “sapiente”, rispetto ai meccanismi psicologici messi in atto dalla ninfomane per soffrire meglio insieme agli altri. Soffre lei, soffriamo noi e Lars von Trier mette a punto la sua terapia che funziona meglio quando “Joe, improvvisamente, vede ordine nel caos”.

La casa di Jack (visto in versione integrale) è un film che racconta l’odissea criminale di un’anima sporca, confessata, specularmente a Seligman, da una guida (Bruno Ganz, alla sua ultima interpretazione) che lo accompagnerà fino alla sua metamorfosi in everyman dantesco rovesciato e sprofondato negli inferi. Per comprendere meglio il “metodo Lars” potremmo citare Cartesio che, parlando delle passioni dell’anima, sostiene che per annientare la sorpresa derivante dalla paura “non c’è niente di meglio che usare la premeditazione, in modo da prepararsi per bene a tutti gli avvenimenti”. Se fuori il chaos regnat è bene allora ordinare preventivamente la materia horror: costruire un casa e creare cinque capitoli (incidenti) che abbiano l’obiettivazione come effetto della paura: l’uomo, anziché sfuggire allo spavento, lo guarda dal di fuori. È ciò che sosteneva Delpierre, ed è ciò che da qualche anno ci fa vedere il regista, proponendoci affreschi carichi di quell’angoscia che, secondo Kierkegaard, è il simbolo del destino umano: una composizione metodica, ossessivo compulsiva, sui disturbi mentali dell’individuo e sulla devianza che diventa arte.

Solo così si può leggere La casa di Jack come un horror che relega il ripugnante nella caricatura, la narrazione nell’exemplum a rovescio accompagnato da un sadico black humour. Lars sogghigna, mentre manipola i cliché cinefili (pulp, slasher d’autore), inchiodando il moribondo occidente alle sue derive autoritarie e infilando, tra digressioni artistiche e inserti di materiale d’archivio, critiche feroci all’Olocausto e all’inettitudine di uomini (poliziotti) e donne (in tempo di Me Too); si direbbe che abbia un bisogno enorme di corpi da incasellare nelle creazioni artistiche del serial killer per fare il controcanto ai precedenti corpi orgasmici.

Allora La casa di Jack, e tutti i film di Lars von Trier post Il grande capo, diventano, più che deliri inconsistenti, esorcismi contro i mali della nostra società, spaventi svuotati della suspense e dilatati all’eccesso, artificiali come i freddi intellettualismi che mescolano Blake, Goethe e Glenn Gould, glaciali e chirurgici nella loro estetica che ha i suoi smottamenti solo nella “dogmatica” camera a mano. Per guarire dal dolore, sembra dirci il regista, bisogna saper guardare la sofferenza, analizzando con perizia i quadretti violenti tra il grottesco e il surreale che trasformano la speculazione in divertissement e la violenza in un cammino allegorico-didattico.

Ad avvalorare questa tesi basta analizzare le musiche e notare il passaggio dal tritono diabolico della cantilena mea vulva, mea maxima vulva intonato dalla setta ninfomane, a David Bowie che irrompe sulla scena con Fame nei momenti più cruenti, come quando Jack trascina dietro al furgone, sfigurandola orridamente, una delle sue tante vittime lasciando una scia di sangue sull’asfalto. Lo stesso fil rouge che si insinua ancora una volta nelle pieghe di un corpo agonizzante, simbolo di un mondo morente che smorza ogni forma di empatia sociale. Il solito, vecchio Lars che, mentre riflette, precipita negli inferi e cade “come corpo morto cade”.