Reginetta glam, rétro e raffinata, autodefinitasi “la versione gangster di Nancy Sinatra” e salita alla ribalta nel 2012 con Born to Die, Lana del Rey non è la solita lolita pop. Lana del Rey è la pioniera dell’Hollywood sadcore, un sottogenere della musica alternativa che include canzoni dal ritmo lento, dai testi malinconici e atmosfere morbide (la hit Summertime Sadness ne è un esempio), connotate da una voce sognante e dal registro basso, eppure perfettamente in grado di coprire tre ottave. La critica specializzata ha spesso sottolineato durante il corso della sua carriera, come vi sia nei testi e nelle sonorità degli arrangiamenti, un forte richiamo agli Stati Uniti degli anni Cinquanta e a quella cultura pop intrisa di abiti floreali, linee di eyeliner e swing alla Frank Sinatra, grande influenza di Del Rey per la produzione di tutti i suoi lavori discografici. Fatta la doverosa premessa nei confronti di un’artista che per certi versi può sembrare assolutamente in linea con molte altre colleghe che altrettanto orientano l’umore dei propri dischi verso una filosofia alquanto uggiosa e depressa, è opportuno prendere da parte Lana del Rey e capire per quale ragione la sua anima sadcore sia così Hollywood.

Innanzitutto Del Rey ha sempre dichiarato di sentirsi come se appartenesse agli anni Cinquanta, di essere affetta da una sorta di “sindrome dell’età dell’oro”, una forte nostalgia per un passato mai vissuto, che ne plasma costantemente l’ispirazione artistica. Per questo, forse, scelse inizialmente di proiettare in anteprima il suo cortometraggio Tropico (Anthony Mandler, 2013) all’Hollywood Forever Cemetery (ivi sono sepolti, tra tanti, Cecil B. DeMille e Judy Garland), per poi preferire il Cinerama Dome, il celeberrimo cinema in cui venne inaugurato Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer nel 1963. Hollywood ha agevolato anche la carriera in qualità di compositrice di musiche per film (Maleficent, Il grande Gatsby, Big Eyes, Season of the Witch), ma una particolarità più anticonvenzionale spiccherebbe intorno all’evoluzione dei suoi video musicali: Lana del Rey ne ha allungato di parecchio la durata dai convenzionali 2-3 minuti ai 9 minuti e 19 di Fuck it I love you & The Greatest, album dopo album, spesso interessandosi poco della qualità o del fatto che vi sia un vero plot, creando dei microfilm artigianali (con la collaborazione della sorella fotografa Chuck Grant) in Super 8 con tanto di graffi, filtri vintage, lenti colorate e slow motion.

Complici anche i social e le app per post-produrre filmati homemade, molto spesso utili strategie di marketing per concedere ai fan l’ascolto di snippet di brani inediti. Non meno importante, uno dei temi fondamentali di molte canzoni è Hollywood stessa, sfondo e teatro delle reminiscenze amorose con uomini più vecchi (Cola), a mangiare del gelato italiano (Salvatore) a bordo di una piscina (Off to the Races o quella omonima di Jacques Deray del 1969) contornato dall’incubo Charles Manson (Heroin). Quasi un’ossessione, quella di omaggiare La Mecca del cinema, l’America, le spiagge per sfuggire ai paparazzi o temi fortemente “divistici” perfettamente appropriati alla personalità e al proprio allure, facendone e creandone nientedimeno che un genere musicale.