Dino Risi lo chiamava “l’orologiaio”. Era un complimento? Chi può dirlo, certo l’attitudine dell’anatomopatologo della nostra commedia – nonché supremo maestro della sprezzatura – era piuttosto sarcastica. E tuttavia è indiscutibile che al fondo vi sia una sottile ammirazione. Glielo dice anche Vittorio Mezzogiorno ne Il giocattolo (tra le trenodie più nascoste in piena vista della nostra commedia): “ma lei che fa, l’orologiaio?”. E lui risponde: “no, è solo un hobby: faccio il ragioniere”. E qui c’è un po’ tutto Nino Manfredi, nato a Castro dei Volsci il 22 marzo di cento anni fa.

Cosa fa un orologiaio? È un tecnico che si occupa della meccanica degli apparecchi, ma anche un artigiano che lavora di fino. Qualcuno ha definito Manfredi “il più americano dei nostri attori”: con i colleghi d’oltreoceano condivideva il rigore del metodo, lo sguardo scientifico, l’apparente sparizione nel personaggio. Veniva dall’Accademia (d’arte drammatica: suoi compagni erano Tino Buazzelli, Paolo Panelli, Bice Valori, Paolo Ferrari, Gianni Bonagura): e si vedeva, e si sentiva. Ma prima ancora veniva dall’università: una laurea in giurisprudenza, caso rarissimo tra gli istrioni italiani, meno tra i registi (il dottor Risi, gli architetti Luigi Comencini e Alberto Lattuada, Mario Monicelli da Lettere e filosofia…). Da non sottovalutare, il titolo accademico, per capire il carattere spigoloso, la predisposizione dialettica al dissidio, l’ambizione di farsi autore di sé.

D’altronde, dei moschettieri della commedia passati dietro la macchina da presa è stato quello più desideroso di accreditarsi come auteur, con più sicurezza del pur estroso Ugo Tognazzi e meno sistematicità di Alberto Sordi (da regista di cinema Vittorio Gassman è un occasionale battitore libero al cinema). Lo dimostrano i suoi tre lavori ufficiali: il calviniano “L’avventura di un soldato”, poetico e malizioso episodio muto del collettivo L’amore difficile; la pastorale ciociara di Per grazia ricevuta, complessa educazione sentimentale attraversata dallo scetticismo religioso (premio a Cannes per l’opera prima); e Nudo di donna, espropriato a Lattuada, ambigua storia di un matrimonio in una Venezia onirica al crepuscolo carnevalesco.

Fu forse Rodolfo Sonego a sostenere che Manfredi rilevava i ruoli scartati dagli altri: una perfidia che però svela la percezione nei confronti di un divo che ha fatto più fatica degli altri a spiccare il volo. Per certi versi è proprio con Sordi – per anni giudicato “veleno al botteghino” prima di Un americano a Roma – che condivide la fatica della gloria. È vero che fu quello a esplodere più tardi, peraltro sull’onda del successo televisivo (Canzonissima nel 1959, dove lanciò il tormentone “Fusse che fusse la vorta bbona”) e soprattutto teatrale (in scena dal 1962, Rugantino fu un exploit internazionale), ma è anche vero che già ultraquarantenne riuscì a ritagliarsi uno spazio autonomo nella commedia all’italiana, dando vita con disciplina e scrupolosità a un tipo di personaggio in bilico tra allegria e patetismo.

C’è però qualcosa che lo rende veramente unico nel novero degli interpreti della sua generazione: Manfredi ha fame. Anche quando lo troviamo borghese appagato, percepiamo sempre il bisogno fisiologico di mangiare, lo spettro della denutrizione, la forza d’animo di chi ha fatto della rinuncia un mezzo per emanciparsi. Se Billy Wilder si chiedeva “come lo farebbe Lubitsch?”, Manfredi sembra agire rispondendo alla domanda “come lo farebbe Chaplin?”. È una caratteristica che lo colloca in continuità con Totò e gli altri comici memori dell’indigenza, e perciò Eduardo vedeva in lui una sorta di erede ideale. E perciò crediamo assolutamente alla sua identificazione con il poverissimo, umanissimo Geppetto in quello che a tutt’oggi resta il più bello degli adattamenti de Le avventure di Pinocchio e, in parallelo, alla precisione con cui calibra l’iperrealismo nei panni del terribile, dispotico borgataro di Brutti, sporchi e cattivi: due morti di fame, sì, ma opposti.

Per non parlare delle mezze porzioni del portantino Antonio Cotichella (hanno mai sbagliato un nome Age & Scarpelli?) in C’eravamo tanto amati, della quotidiana odissea notturna del venditore abusivo di Café express, dei sacrifici anche fisici del disgraziato emigrante di Pane e cioccolata. Con quella faccia segnata dalla malattia adolescenziale (la tubercolosi che lo costrinse mesi in sanatorio), dall’inedia della guerra, dalla voglia di emergere, Manfredi è il più credibile come emigrato, da Il gaucho a Spaghetti House. E sa essere il più provinciale di tutti (il fascismo come racconto di formazione in Gli anni ruggenti, la vita filtrata dai consumi culturali popolari in Straziami ma di baci saziami), una vittima che soccombe al sistema (una schiera di timidi, da L’impiegato a “Una giornata decisiva” ne I complessi, passando per il versante amaro di A cavallo della tigre, quello tragico di Girolimoni, il mostro di Roma al ridicolo di Attenti al buffone), ma anche l’uomo del popolo capace di incarnare il disorientamento del maschio borghese nella contestazione (Il padre di famiglia, Lo chiameremo Andrea).

Ciociaro, con un profilo meno “imperiale” del romanzo Sordi e meno “piacione” del versatile conterraneo Marcello Mastroianni, Manfredi ha un volto che trascende lo spazio, il censo, il tempo. Negli esplosivi one man show Questa volta parliamo di uomini e Vedo nudo sa passare dalla rozzezza del contadino che abusa di una gallina alle perversioni di un docente universitario, dal brutale lanciatore di coltelli all’impiegato che si traveste da donna. Si trasforma in napoletano cogliendone la quintessenza in Operazione San Gennaro e La mazzetta e lavora sull’anima della Capitale nel sodalizio con Luigi Magni, che lo elegge a feticcio che sia portaparola del popolo (Pasquino in Nell’anno del Signore e Ciceruacchio in In nome del popolo sovrano) o principe del clero (il monsignore scopertosi padre di un rivoluzionario in In nome del Papa re e il cardinale che si finge moribondo per farsi pontefice in Signore e signori, buonanotte).

Attore sfuggente e meticoloso, Manfredi Nino nato Saturnino. E forse il destino di questo orologiaio della recitazione sta tutto nel nome: Saturnino significa meditabondo, riflessivo, malinconico, soggetto agli influssi del pianeta che è meglio non avere contro.