Adam è il figlio di un pescatore analfabeta, ma è curioso come sua madre, scomparsa troppo presto. Viene accettato all’Università Al-Azhar - la più grande istituzione islamica - e decide di partire per Il Cairo. Poco dopo il suo arrivo muore il Grande Imam che dirige il centro di studi e si presenta il problema di individuare un possibile successore. Il candidato naturale (un anziano Imam di forte profondità spirituale) non viene ritenuto idoneo; subentrano, infatti, valutazioni strategiche che si avvalgono di mezzi illeciti di persuasione e abusi di Potere. Adam (perfetta recluta innocente, soprannominato persino “Angelo”) si trova coinvolto nelle dinamiche complottiste, ma prova a non sporcarsi le mani, a non dimenticare da dove viene, come gli aveva intimato suo padre prima di partire.
Tarik Saleh (regista egiziano di origine svedese) pone al centro della narrazione il rapporto tra il Sacro e il Potere, analizzando tutte le storture dei suoi “tradimenti”. L’uno si serve dell’altro: il Potere, costruzione artificiale e tendenziosa, utilizza il Sacro (e il timore che il Sacro suscita) per allontanare gli uomini dalla fede sincera e dalla conoscenza. Immediato il richiamo all’analisi condotta da Michel Foucault sulle pratiche di potere e di controllo, che ha cercato di mostrare il volto impresentabile dei sistemi di dominio culturale e politico.
Foucault ha indagato gli strumenti visibili e invisibili del potere: per la prima categoria le prigioni, per la seconda i meccanismi che tendono ad organizzare il tempo e lo spazio della popolazione occupata, scandirne la giornata e plasmarne le dinamiche sociali. Il binomio Potere e Sacro diventa, allora, per Saleh, l’occasione per soffermarsi sul confine tra regime ideologico e conoscenza; sui territori dove la marginalità è condannata (nella migliore delle ipotesi) al silenzio e sull’autorità che non sempre fa ricorso alla ferocia “arcaica” o alla brutalità pura, ma agisce in modo più subdolo, cospirando.
La cospirazione del Cairo, vincitore a Cannes 2022 per la migliore sceneggiatura, ci presenta la realtà di un mondo che - per eccellenza - dovrebbe essere il punto di riferimento morale dell’intera sfera islamica, senza demonizzarla, raccontando con rigore, conservando una profonda onestà. Non fornisce soluzioni, né si accanisce contro i “potenti”. Tarik Saleh insiste su un’idea di cinema non “bellico”, ma che rivendica il bisogno di libertà e informazione.
Per certi versi, allora, aderisce al pensiero di Jafar Panahi, alla sua resistenza di fronte ai poteri “ingiusti”. Ne La cospirazione del Cairo viene raccontato il sistema persecutorio e la violenza (che non possono non riportarci all’omicidio di Giulio Regeni), gli intrighi e i ricatti, la perdita di innocenza. Adam prova a difendersi con i mezzi che ha a disposizione: il suo atteggiamento ci ricorda quello di Guglielmo da Baskerville de Il nome della rosa, testimone di crudeltà nell’Università che diventa teatro di delitti.
È necessario chiedersi cosa è possibile acquisire ed imparare da questa vicenda, come viene domandato dall’Imam ad Adam. Tarik Saleh conferma l’intento, già emerso ne L’omicidio del Cairo (2017), di raccontare sistemi coercitivi che agiscono indisturbati, facendo leva sull’ipocrisia. Conferma anche la volontà di ribadire l’esistenza della verità, intesa come principio di distinzione tra elementi in contraddizione e come potere di obiezione contro la menzogna politica e ideologica.