Charlie Chaplin senza Charlot. La donna di Parigi è il primo lungometraggio e il primo dramma con Chaplin alla regia senza che figuri nel cast artistico, operazione ripetuta solo nel 1967 con La contessa di Hong Kong. Un’iniziativa rischiosa e rivelatasi fallimentare dal punto di vista delle reazioni del pubblico, abituato al Chaplin “vagabondo” e di successo sin dagli esordi con la Keystone.

Eppure gli ottimi e unanimi risultati di spettatori e critica non sono abbastanza e nel 1923 il fermento creativo e produttivo è alle stelle: il contratto con la First National è ormai terminato e la neonata United Artist gli concede la più totale libertà. Scrivere per poi girare La donna di Parigi è l’occasione giusta per tradurre in forma metaforica le proprie ispirazioni di natura privata, pur tentando di produrre qualcosa di totalmente diverso, definito dai più un autentico film d’arte e una pietra miliare per i registi delle generazioni successive.

Ambientato “nella magica città di Parigi dove la fortuna è volubile”, il personaggio della timida Marie St. Clair viene cucito su misura per l’attrice Edna Purviance, musa di Chaplin dal 1915, che fin dai primi anni Venti combatte una forte dipendenza da alcool e da una sempre più grave mancanza di ruoli cinematografici. Fonte di ispirazione per la scrittura del personaggio sono invece Peggy Hopkins Joyce, stella delle Ziegfeld Follies e arrampicatrice sociale, e Pola Negri, conosciuta durante il suo viaggio in Europa nel 1921, con cui Chaplin intrattiene un’intensa relazione e da cui ha modo di apprendere lo stile di messa in scena e di regia di matrice europea.

Nonostante la messa in scena sia per la maggior parte collocata in interni sfarzosi e ampiamente ammobiliati, vi si utilizzino movimenti di macchina statici e i personaggi indossino costumi ingombranti ed elaborati (in netta antitesi con gli indumenti poco pretenziosi dei precedenti film di Chaplin), la recitazione risulta essere invece sorprendentemente naturale, realistica e ponderata, riuscendo senz’altro nell’indagine di ogni più minuzioso aspetto psicologico di ogni personaggio, che sia lo scapolo Pierre Revel (Adolphe Menjou) o che siano il padre e la madre di Marie.

Un aspetto importante per il 1923, anno in cui nella cinematografia mondiale ancora si rispettano gli stilemi di una certa interpretazione teatrale a scapito di uno studio dell’interiorità di ciascuno dei protagonisti: i difetti umani e i comportamenti definiti immorali dai censori dell’epoca (come l’uso di tabacco o un trattamento poco rispettoso verso le figure genitoriali) sono il segnale di un’indagine intelligente e di avanguardia su un’esistenza senza un lieto fine.

Un Chaplin poco conosciuto, capace di filtrare la realtà in maniera del tutto inedita.