“Il potere è l'afrodisiaco supremo”. Le parole di Henry Kissinger riecheggiano in ogni fotogramma de La Favorita, film che non si limita a sancire l'ammissione ufficiale di Yorgos Lanthimos nel mondo di Hollywood, ma lo fa attraverso una scommessa rischiosa e ardita: prendere un genere dai canoni precisi come il film storico in costume e sabotarlo dall'interno con le influenze della modernità. Quella a cui assistiamo, infatti, non è solo una tagliente satira sulle perversioni del potere, ma anche una perfida messa in scena dei conflitti di genere che nell'era del Me Too hanno assunto una rilevanza cruciale.

Nell'Inghilterra illuminista che gli sceneggiatori Deborah Davis e Tony McNamara vogliono raccontare, l'uomo è brutalmente schernito e privato di qualunque forza decisionale nelle meccaniche del potere; l'unica funzione del maschio è quella di morire al fronte oppure oziare a palazzo nella vana speranza di ottenere favori dalla regina Anna, divisa tra le attenzioni della gelida Lady Sarah e della spregiudicata Abigail. Uno scenario a dir poco antitetico rispetto alle gerarchie sociali del Settecento fedelmente rappresentate in Barry Lyndon, ma i contrasti con il film di Kubrick non si fermano qui: alla riproduzione pittorica del regista statunitense Lanthimos oppone una violenta deformazione dello scenario e dei personaggi in gioco, una sorta di caricatura grottesca del Secolo dei Lumi espressa dalle geometrie visive della macchina da presa, che come una telecamera a circuito chiuso si annida nelle sale del potere e rivela allo spettatore i suoi segreti più sordidi.

Sono le donne ad avere il controllo e gli strumenti migliori per esercitarlo sono la parola e il sesso. La lotta mentale e dialettica tra le due favorite si gioca sul filo della manipolazione reciproca e dell'intimità carnale, applicata senza alcuna forma di empatia o sentimento che non siano l'egoismo e l'autoconservazione; la crudeltà delle tre protagoniste diverte perché attuata con sommo compiacimento ma è sintomo di un dolore acuto, causato da perdite e umiliazioni passate, che può essere lenito solo attraverso la sopraffazione. Inutile dire che il fascino ipnotico del film sta tutto nel talento delle sue interpreti – due su tre, si spera, in odore di Oscar – capaci di portare sullo schermo ritratti femminili di rara potenza, ma va riconosciuto il giusto merito anche alla verbosità frenetica della sceneggiatura che alleggerisce le atmosfere plumbee a cui Lanthimos ci aveva abituato e arricchisce la sua poetica nichilista con sfumature ironiche inattese.

Nonostante il suo umorismo maligno e raffinato, le riflessioni sul potere che La favorita propone al pubblico giungono ad un'unica e amara conclusione: non può esistere un padrone senza un servo da sottomettere. Sarah e Abigail si scontrano in un campo di battaglia riservato per consuetudine agli uomini e riescono a superarli in astuzia e ferocia, ma in quanto suddite il controllo sulla loro libertà e dignità individuale rimarrà sempre e solo un'utopia, ed è da questa amara constatazione che scaturisce l'enigmatica dissolvenza finale del film, dove vivi e “morti” si sovrappongono e liberano tutte le pulsioni mortifere che da sempre infestano il cinema del regista greco.