Accostandosi alla filmografia di Yorgos Lanthimos è impossibile non constatare come dall’inizio del suo inserimento all’interno di un contesto produttivo internazionale il regista greco abbia intrapreso un lineare percorso di apertura nei confronti di un cinema sempre più accessibile. Al suo lancio con lo spiazzante Kynodontas (2009), il surrealista ellenico mostrava l’intenzione di volersi esprimere secondo regole narrative proprie, incurante di quanto la marcata astrusità formale potesse penalizzare il suo lavoro agli occhi di un pubblico vasto, variegato e talvolta poco esigente. Compiacere sé stesso ed i pochi fedeli accoliti pareva l’unica intenzione alla base del suo operato anche all’uscita del successivo Alps (2011), in cui la volontà di sovvertire le attese spettatoriali attraverso una struttura torbida veniva nuovamente estremizzata fino alla repulsione.
Con la prima opera finanziata parzialmente da capitali esteri (The Lobster, 2015), lo sguardo di Lanthimos inizia a mutare e, pur rimanendo ancorato ad una cifra stilistica criptica ed essenziale, esso lascia trasparire la volontà di ampliare la portata del proprio linguaggio affinchè risulti maggiormente comprensibile. L’utilizzo di attori dai volti noti e l’affinamento della tecnica registica costituiscono un elemento preponderante anche ne Il sacrificio del cervo sacro (2016), ad oggi probabilmente il compromesso perfetto tra la brutalità degli esordi ed una forma più rigorosa e narrativamente efficace.
Ora, con l’uscita del graffiante La favorita, il balzo compiuto nella direzione di un approccio popolare copre un arco spaziale ancora più consistente. Per la prima volta alla regia di un progetto ideato da menti altrui (soggetto e sceneggiatura sono di Deborah Davis e Tony McNamara), Lanthimos si concede il gaudio di abbandonare le vesti di macabro artigiano di sinistri affreschi umani, per adagiarsi nei panni di uno zelante ed arguto cantore di vizi borghesi. Depositando le consueta armatura rivestita di ruvida asprezza, l’autore approda ad una dimensione giocondamente satirica, palesandosi attraverso una riconoscibile dose di grottesca follia, ma risultando ammansito da una limpidezza espositiva che fino ad ora gli pareva sconosciuta. L’approdo a questa nuova dimensione viene coadiuvato dalla magniloquenza di un apparato tecnico mai così sofisticato: le scenografie ed i costumi sontuosamente ricostruiti secondo i fasti dell’epoca ed il naturalistico compendio dei contrasti luminosi di una fotografia che intercetta gli echi kubrickiani di Barry Lyndon.
È chiaro come La favorita sia il film attraverso il quale Lanthimos punti alla definitiva consacrazione nel tempio hollywoodiano (operazione che peraltro può dirsi abbondantemente compiuta in virtù delle recenti 10 nomination ai prossimi Oscar), ma allo stesso tempo costituisca una prova della versatilità di questo cineasta che, laddove necessario, mostra di saper adeguare la propria feroce personalità ai canoni dell’industria, interloquendo con essa e risultandone addirittura arricchito.