Una voce flebile, sussurrata e arrendevole. Il volto pallido, spiritato, di un bambino morto per mano di un essere ignobile, un principe avaro e arido. Una voce fuori campo parla (con tono poetico) di fantasmi, di eventi destinati a ripetersi e di dolore. Nella Spagna del 1939, verso la conclusione della guerra civile, un bambino, Carlos, viene portato in un orfanotrofio. La ferma direttrice Carmen (Maria Paredes) nasconde all’interno dell’istituto dei lingotti d’oro, che usa per sostenere la causa dei repubblicani, sempre più deboli. Casares (Federico Luppi), un uomo gentile, amante della poesia e della musica, è innamorato di Carmen, ma siccome ha problemi di impotenza può starle vicino solo nella sua battaglia.

Carlos, nonostante la paura e la tristezza, entra subito in sintonia con le anime che abitano l’istituto: Santi e la bomba inesplosa. Dopo qualche scontro con Jaime - il più grande fra gli orfani, ma anche il più introverso e sensibile - il premuroso Carlos riesce a farsi accettare dalla sua nuova famiglia. Nella camerata si forma così un gruppo di bambini emaciati, malridotti e dagli occhi profondi, che insieme riusciranno a vendicarsi e ottenere giustizia.

Come ne Il Conte di Montecristo, che è anche il fumetto che possiede Carlos, in questa storia c’è un tesoro nascosto, una fortezza, un tremendo complotto, ma non c’è è possibilità per il perdono. L’orfanotrofio è nel mezzo del nulla. A volte viene mostrato un’orizzonte piatto dalle tonalità giallognole, che può ricordare le infinite distese che animano i film western. Forse anche la figura del giustiziere con il fucile, vuole richiamare quel tipo di contesto, ma in questo caso, da vivi, è più difficile regolare i conti.

Ai personaggi de La spina del diavolo Guillermo del Toro non infonde molta speranza. Gli aiuti non arrivano, se non dall’aldilà, e a rimanere in vita sono davvero in pochi. Il gruppo di ragazzi si allontana senza guida e punta verso un altrove peggiore. Non prendono con loro nulla, i lingotti d’oro rimangono all’istituto, perché sono pur sempre bambini, esseri puri, e non hanno ben chiaro il perché di tutto quel sangue. Del Toro costruisce così un dramma dai toni cupi, ambientato in uno dei periodi storici più bui per la Spagna.

Se nel suo ultimo film l’acqua è un elemento basilare, anche in questo frangente ha un ruolo fondamentale. Il film inizia e finisce con una cisterna sotterranea, il bambino fantasma perde sangue che fluttua nell’aria come se fosse nell’acqua. Tornano anche gli insetti, suo elemento immancabile: dapprima le lumache che i bambini raccolgono per giocare e successivamente le mosche, che prima di essere viste se ne percepisce il forte ronzio. Del Toro tiene astutamente alta la tensione ponendo nel cortile quell’ammasso di ferraglia, dotata di un suo ticchettio, e la trasforma in maniera curiosa da mostro inanimato a totem temuto e venerato allo stesso tempo.

I bambini infatti non si rivolgono né a mistiche credenze di liquidi dotati della capacità di donare forza, né a quel crocifisso “pesante” se hanno bisogno d’aiuto. Loro infatti si nascondono, parlano, ascoltano e chiedono consiglio alla gigantessa di ferro bloccata nel cortile e, quando necessitano di maggior aiuto, hanno dalla loro parte gli spiriti. Tutto ciò che può essere giudicato in modo azzardato e frettoloso si rivela così essere il contrario di quello che può sembrare.