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“Pinocchio” e la disobbedienza come atto politico

Questa versione della storia è in generale un racconto di disobbedienza verso i padri, reali o figurati, che nella maggior parte dei casi rappresentano un esempio da cui allontanarsi: Pinocchio, che disobbedisce a Geppetto – un Geppetto estremamente umanizzato – che lo vorrebbe uguale al suo deceduto Carlo; Lucignolo che disobbedisce al padre fascista; infine Spazzatura, personaggio originale che si ribella ad un altrettanto originale Conte Volpe, fusione tra la volpe e Mangiafuoco. Pinocchio diventa non più un cattivo esempio da cui guardarsi, bensì un modello da seguire.

“La fiera delle illusioni” più adattamento letterario che remake

Del Toro ha esplicitamente dichiarato di non aver voluto inserire nessuna voce narrante esterna, nessuna strada notturna percorsa da uomini in cappotto, nessuna veneziana socchiusa da cui filtra qualche lama di luce, ma di aver invece voluto mantenere inalterato quel chiaroscuro, quella maniera obliqua che il noir ha di leggere la realtà. “Ho voluto fare un film – ha dichiarato – che fosse ambientato nel passato ma che parlasse del presente”. Un presente che il regista continua a raccontare attraverso la lente deformata di fauni, mostri marini, fantasmi e geek-mangiabestie.

“La fiera delle illusioni” senza redenzione

A un primo livello il personaggio di Stan è avvicinabile per movenze e abiti al protagonista de Il postino suona sempre due volte di Tay Garnett (1946). Però a Guillermo del Toro non basta e quindi inserisce alcuni tratti del Frank del remake di Bob Rafelson, ma non è ancora sufficiente. Quindi se il personaggio interpretato da Jack Nicholson passa dall’avere una spiccata propensione alla negatività al diventare negativo, quello interpretato da Bradley Cooper è un predestinato, può solo ricevere e dare morte, opprimere ed essere oppresso, incantandoci e illudendosi di non esserlo. Del Toro ci mette quindi davanti a un film disperato e a una storia ingannevole.

“Scary Stories to Tell in the Dark” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Come nell’It kinghiano, sono le colpe del passato, l’avidità, la discriminazione, l’odio (nutrito dalle parole, dalle bugie raccontate e dalle verità tacitate) a creare il mostro che aleggia sulla città. E, come spesso accade nel cinema di Del Toro, è stretto il connubio tra Storia e storia, tra realtà del tempo (e del nostro tempo) e paure, non solo soprannaturali. L’anno è il 1968, sugli schermi delle vecchie TV in bianco e nero passano ripetutamente le immagini della campagna presidenziale di Richard “Tricky Dick” Nixon (che nome perfetto per un mostro da teen horror!) e il fantasma feroce e sanguinario della guerra del Vietnam spaventa più di qualsiasi casa stregata. Una scary story terribilmente reale, pronta a catapultarti in un mondo da incubo da cui è difficile tornare indietro.

“La forma dell’acqua” e il cinema come serbatoio

Per del Toro, l’acqua è il cinema stesso, che prende la forma che noi vogliamo dargli. C’è cinema ovunque, qui. Lungo i corridoi dei laboratori, con colori, facce, feticci, manicheismi, paranoie tra John Frankenheimer e Sidney Lumet. C’è un cinema mediato, iconizzato, omaggiato nella sontuosa sala vuota del cinema dove si proiettano i peplum, nei televisori che trasmettono i film classici su piccoli schermi che ne limitano il sogno. Pur di espanderlo e riportarlo nel posto che gli spetta, del Toro fa fuggire la coppia in un onirico bianco e nero: dentro quella casa – che ha già allagato la sala sottostante – accade l’unico momento in cui la protagonista emette suoni (canta) e la creatura può danzare da novello Fred Astaire.

La forma della purezza ovvero “La spina del diavolo”

Se nel suo ultimo film l’acqua è un elemento basilare, anche in questo frangente ha un ruolo fondamentale. Il film inizia e finisce con una cisterna sotterranea, il bambino fantasma perde sangue che fluttua nell’aria come se fosse nell’acqua. Tornano anche gli insetti, suo elemento immancabile: dapprima le lumache che i bambini raccolgono per giocare e successivamente le mosche, che prima di essere viste se ne percepisce il forte ronzio. Del Toro tiene astutamente alta la tensione ponendo nel cortile quell’ammasso di ferraglia, dotata di un suo ticchettio, e la trasforma in maniera curiosa da mostro inanimato a totem temuto e venerato allo stesso tempo.

Suono e musica in “La forma dell’acqua”

Oltre la prevedibilità delle parole, gli ‘ultimi’ di del Toro si esprimono con corpi pulsanti di desiderio e occhi e orecchie capaci di proiettare direttamente nella dimensione di un altrove straordinario. Balletti guardati alla televisione, canzoni ascoltate su vinile, mini-sequenze da musical ricreate nell’immaginazione sognante: la musica lega e vivifica ciò che luce e colore esaltano, in una modalità di senso che supera la forma espressiva. Nella musica Elisa va oltre il suo mutismo, cantando un sentimento d’amore impossibile da comprendere in tutta la sua profondità; nella musica la narrazione acquisisce fluidità di discorso compiuto.

Omaggio a Guillermo del Toro: “Cronos”

Del Toro dipinge così il ritratto visionario di un vampiro languido, che inizialmente non sa di esserlo e che si rivela essere solo un uomo letteralmente a brandelli e a cui un destino infame si è ritorto contro. Fin da questa sua prima opera – che segna anche l’inizio del lungo sodalizio con il direttore della fotografia Guillermo Navarro – si possono riscontrare la cura che del Toro conferisce alle scenografie e le sue più caratteristiche ossessioni per gli insetti, le imperfezioni, il trucco. Colori, oggetti, ogni dettaglio e azione è densa di significati: difficili da cogliere nel profondo con una sola visione.

“La forma dell’acqua” è la più alta forma d’amore

Perché la forma dell’acqua? Forse perché nel cinema vi si sono sempre sugellate le più alte forme di amore: c’è la protagonista di Lezioni di piano che per un momento aveva deciso di legarsi indissolubilmente al silenzio imperante dell’oceano, e c’è Jean Vigo, per cui l’acqua è il luogo in cui è possibile scorgere la persona amata. E non a caso è nell’acqua che Elisa e il “mostro” consumano il proprio desiderio amoroso – scandito dalle appassionate note di Alexandre Desplat, tra il languido e malinconico, idilliche e sempre incalzanti e coerenti con lo sviluppo della storia.