"Sullo schermo non esiste una natura morta [...] gli alberi gesticolano, le montagne si esprimono". Così scriveva Jean Epstein nel saggio Le Cinématographe vu de l’Etna (1926), in cui esponeva il suo punto di vista sul lavoro fatto con La Montagne infidèle (1923). L’opera di Epstein mostra il suo grande interesse per la natura e la sua forza distruttrice. La colata lavica del giugno-luglio 1923 e la sua lenta ma costante forza distruttrice hanno per lui un fascino tale da spingerlo a raggiungere il cratere durante l’eruzione pur di imprimere la sua inesorabilità sulla pellicola. Eterno e lento movimento, con la natura che, ignorando la presenza degli uomini, si riprende quello che è suo distruggendo secoli di storia. Epstein ama i luoghi in cui natura e città vivono in simbiosi, una simbiosi che può però essere spezzata da un momento all’altro dalla vitalità del pianeta. Anche per questo il regista svilupperà un legame quasi morboso con la Bretagna, un luogo la cui sopravvivenza proviene dall’oceano e dalla sua umoralità.

In La Montagne infidèle a fare da contorno è la Sicilia, che viene raccontata e ripresa attraverso gli alberi e le distese erbose. Il fascino del regista per questa terra è chiaro ma il suo sguardo è poetico, non realistico. Tutto viene visto attraverso il filtro paesaggistico e l’improvvisa irruzione dell’uomo, nella figura dei fascisti che presidiano le aree colpite per evitare lo sciacallaggio, rappresenta quasi uno shock, una stonatura. La costruzione narrativa che Epstein dà al documentario è ben studiata: si parte da una situazione iniziale di idilliaca normalità per poi raccontare l’eruzione mostrando case e paesaggi martoriati e infine tornare, chiudendo il cerchio, alla situazione di partenza. La natura mostra la sua brutalità a sprazzi e l’uomo può solo convivere con essa e aspettare per poi ricostruire.

Il primo Epstein è capace di usare la violenza della natura anche in opere più atipiche come L’Auberge rouge (1923). Il film, tratto dall’omonima opera di Balzac, è girato principalmente in interni, ma la scena più forte ha come sfondo proprio l’elemento naturale e distruttivo della tempesta. Il temporale rappresenta qui lo stato d’animo del protagonista, mosso dall’angoscia di aver scoperto lati inediti del suo animo che lo hanno portato quasi all’omicidio. Tra i lampi e lo scrosciare interminabile della pioggia che trasfigurano il paesaggio, anche i lineamenti di Prosper si trasformano e diventano una maschera orrorifica. La notte scorre, il temporale è passato, l’uomo non ha compiuto il delitto che però è comunque avvenuto. L’idillio iniziale non può tornare, un omicidio è stato compiuto e qualcuno dovrà pagarne le conseguenze. La vita dell’uomo, al contrario del ciclo naturale, non ristabilisce il suo equilibrio una volta espressa la propria forza distruttrice…