Edito da Mimesis, Look Over Look. Il cuore fotografico del cinema di Stanley Kubrick viene a colmare una significativa lacuna negli studi dedicati al grande regista newyorkese, evidenziando l’influenza che la fotografia ha avuto da sempre nella formazione artistica del cineasta, che esordì a 17 anni proprio come fotoreporter per la rivista “Look”. Ne parliamo con l’autrice Caterina Martino, studiosa di storia e teoria della fotografia italiana e internazionale nei suoi rapporti con le altre arti (in particolare cinema) e con il dibattito filosofico contemporaneo.

Lapo Gresleri: Caterina, il tuo libro viene a fare il paio con il catalogo della mostra del 2010 “Stanley Kubrick. Fotografo. Gli anni di Look (1945-1950)”. A oggi questi sono gli unici due volumi pubblicati in Italia a trattare questa dimensione artistica del regista, ancora così poco conosciuta e considerata dagli studiosi, eppure essenziale per capire a fondo la composizione e l’architettura del cinema kubrickiano. Come ti spieghi questo paradosso?

Caterina Martino: Kubrick fa parte di una schiera di autori in cui l’anima del fotografo convive con quella del regista. Molti fotografi hanno finito per fare i registi (è proprio il caso di Kubrick), molti registi hanno finito per fare i fotografi e molti altri sono rimasti sospesi fra le due attività. Se per ogni singolo artista questa ibridazione di forme e pratiche è ovvia (ad esempio, William Klein – una figura importante nella visione kubrickiana – ha più volte dichiarato che dopo aver realizzato il suo primo volume fotografico Life Is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels nel 1955, gli è sembrato del tutto naturale girare il suo primo film Broadway by Light nel 1958), non si può dire che gli studi di settore l’abbiano considerata con altrettanta ovvietà. Cinema e fotografia sono stati a lungo trattati separatamente, come se fossero ambiti non comunicanti anche se legati da una filiazione. Nel caso specifico di Kubrick, la sua opera cinematografica ha avuto maggiore attenzione negli spazi di riflessione, ma è sempre stata separata dalla sua opera fotografica che è parsa, per lo più, come un primo approccio alle immagini, una fase embrionale della sua attitudine registica. Non è così. Per comprendere i film di Stanley Kubrick è necessario riconoscerne la natura ibrida (Kubrick ha tolto i panni del fotoreporter nel 1950, ma non ha mai smesso di scattare fotografie, né di interessarsi alla fotografia, né di collezionare macchine fotografiche). Ed è necessario riconoscere l’interazione profonda e la reciproca influenza tra pratiche, temi e peculiarità delle due arti. In effetti, Look Over Look non racconta la trasformazione di Kubrick da fotografo a regista, né intende subordinare una fase all’altra: il libro ripercorre la sua carriera fotocinematografica analizzando i film alla luce di tendenze, opere e personaggi del mondo della fotografia.

LG: Quello che metti in evidenza sin dalle prime pagine del saggio è la stretta connessione tra il Kubrick fotografo e il Kubrick regista tanto da definire l’autore “fotocineasta”. Quanto e come questi due linguaggi hanno dialogato nella carriera dell’artista?

CM: Hanno dialogato in maniera profonda ma non immediatamente evidente a un occhio frettoloso, perché i film di Kubrick sono acutamente complessi e sfidano lo spettatore a riconoscere e analizzare i dettagli.

L’esperienza quinquennale nella redazione di “Look” ha funzionato come un percorso di formazione in un settore molto preciso: il fotogiornalismo d’intrattenimento – lontano dal reportage storico e sociale di “Life” – che si fonda sulla narrazione per immagini attraverso il format del photo essay. Tutto ciò, in un contesto geografico e culturale altrettanto circoscritto in cui Kubrick trae inevitabili influenze: New York, scenario d’azione della Photo League, della New York School of Photography, del New American Cinema. Nello staff di “Look” Kubrick apprende molte cose che metterà in pratica nei film: gli schemi narrativi character-centred; la messa in scena del racconto; la direzione degli attori; il controllo del profilmico; la regia e il montaggio della sequenza narrativa; la costruzione dell’inquadratura, ecc. Questa esperienza è stata cruciale al punto di fargli dichiarare, molto tempo dopo, che per fare un film è necessario conoscere la fotografia.

Paradossalmente, però, per conoscere la fotografia Kubrick ha dovuto fare dei film: in quanto autore moderno (il riferimento è a ciò che Giorgio De Vincenti scrive in Il concetto di modernità nel cinema), il linguaggio e il racconto cinematografico sono diventati medium e spazio per approfondire l’ambito artistico da cui è partito. L’analisi dei suoi film rivela la radicata presenza della fotografia in più forme e modalità. Ad esempio, le immagini fotografiche sono una fonte di studio per la realizzazione dei film: la verosimiglianza della rappresentazione – si pensi ai film di guerra, ad esempio – lo spinge a recuperare e studiare immagini di interni, costumi, paesaggi, situazioni. Poi, il legame professionale e personale instaurato con una serie di fotografi ingaggiati per fini promozionali (si pensi alla famosa immagine di Lolita scattata da Bert Stern), per documentare la lavorazione del film (si pensi al suo idolo Weegee sul set de Il dottor Stranamore nel 1964) oppure spazi esterni e interni da replicare sul set. E ancora, la presenza consistente e significativa di fotografi, fotografie e macchine fotografiche nel racconto cinematografico. Così come la ricorrente applicazione del modello Prizefighter, il famoso photo essay pubblicato su “Look” nel 1949 nel formato a day in the life of (la giornata tipo di un personaggio), che diventa archetipo dell’intero racconto o di singole sequenze del film. Emerge anche una riflessione su alcuni temi, come la visione (l’occhio che si palesa in molteplici forme), il fotogiornalismo (Full Metal Jacket, 1987), il valore feticista della fotografia (Lolita), l’evoluzione della riproduzione tecnica delle immagini (2001: Odissea nello spazio, 1968), e così via. E infine, il legame diretto e indiretto con personalità come Weegee, Klein, Diane Arbus, Elliot Erwitt, Garry Winogrand, Arthur Rothstein, Henri Lartigue, ecc.

In altre parole, i film di Kubrick sono ricchi di citazioni, ispirazioni, rimandi stilistici e tematici. Ecco, dunque, il perché del titolo Look Over Look: un percorso tra fotografia e cinema che parte dal cuore fotografico di “Look” e arriva a quello dell’Overlook Hotel di Shining (1980).

LG: Dopo una ricostruzione del contesto fotografico newyorkese e il percorso formativo al suo interno del fotocineasta, analizzando film per film vai a rintracciarne rimandi più o meno diretti a pratiche, teorie o autori che caratterizzano scene specifiche o la struttura stessa delle pellicole. Si deduce così come l’occhio kubrickiano sia essenzialmente fotografico, un’impostazione intellettuale su cui lui stesso riflette attraverso il mezzo e il linguaggio filmico, individuando nel montaggio l’elemento distintivo e proprio della settima arte. Come per Kubrick tale peculiarità cinematografica viene ad arricchire una forma narrativa già di per sé completa come la fotografia?

CM: La prima forma di montaggio che Kubrick applica è quella che apprende a “Look”. Il lavoro redazionale è organizzato secondo delle precise procedure contenute in alcuni manuali redatti dai fotografi con cui lavora – tra questi vi è Rothstein, capo di Kubrick a “Look”, componente della Farm Security Administration (FSA) e della Photo League. Costruire una narrazione per immagini significa lavorare su una sequenza che mette in relazione foto e testo all’interno di un contesto preciso, la rivista, in cui è l’impaginazione a determinare il montaggio delle immagini – uno dei trucchi più semplici per creare suspense consiste nell’inserire una pubblicità poco prima del finale e costringere il lettore a voltare pagina per scoprirlo. All’interno di quei manuali Kubrick trova molte indicazioni su come progettare, inscenare e costruire la sequenza attraverso alcune regole di continuità visuale e tematica che funzionano come raccordi e come tecniche di montaggio (classico, discontinuo o formale).

Rothstein è un maestro importante per Kubrick e forse si deve proprio a lui l’interesse kubrickiano per il montaggio sovietico; infatti, il fotografo della FSA, appassionato di cinema, presta al suo giovane allievo molti volumi della sua collezione privata, tra cui Film Technique and Film Acting che riunisce due scritti pubblicati da Pudovkin separatamente nel 1929 e nel 1933 e che sarà per Kubrick sempre una guida imprescindibile per fare film. Attraverso Pudovkin, egli sedimenta l’idea che il film, esattamente come il photo essay, è una «editable sequence of separate pieces of celluloid», quindi qualcosa da costruire e plasmare attraverso l’assemblaggio di pezzi, e cioè le singole inquadrature (istantanee) o le sequenze che esse vanno a comporre. D’altronde, per Kubrick il film va inteso come l’insieme di sei/otto «non-submersible units», ovvero sequenze che funzionano come racconti autonomi (la stessa struttura di Prizefighter).

Insomma, montare un film equivale a impaginare un photo essay.

LG: Cosa, a tuo parere, ha portato l’autore a cimentarsi in una nuova pratica artistica, diversa pur se simile alla quella originaria di partenza?

CM: Le biografie di Kubrick ci raccontano di un ragazzino del Bronx che nella seconda metà degli anni Quaranta va in giro per New York City con la macchina fotografica appesa al collo e che è assiduo frequentatore dei cinema d’essai. È un cinefilo che sogna di diventare un regista. Riuscirà a realizzare questo sogno affermando uno stile unico, senza rimanere intrappolato in cliché o generi, sfuggendo ai canoni e alle imposizioni delle majors.

Kubrick è un autodidatta sia in fotografia che al cinema: matura l’esperienza tecnica direttamente sul campo e la sua formazione teorica direttamente da letture e frequentazioni. Il passaggio dalla fotografia al cinema è graduale e caratterizzato da alcuni passaggi che evidenziano la commistione delle due pratiche artistiche.

Dopo “Look” realizza tre documentari; il primo è Day of the Fight (1951) che inizia a girare quando è ancora un fotoreporter. Day of the Fight rappresenta l’esordio dietro la macchina da presa (di cui apprende il funzionamento grazie al negoziante da cui l’ha acquistata) ma è già una prova del cuore fotografico del cinema kubrickiano: si tratta, infatti, del remake di Prizefighter; per cui, il primo fotografo a cui Kubrick si ispira nella sua opera cinematografica è se stesso. Fear and Desire (1953) è il primo lungometraggio in cui le competenze fotografiche si mescolano alle conoscenze acquisite sul montaggio sovietico. I film noir realizzati tra 1951 e il 1955 consolidano il ponte tra le due arti non solo perché mostrano già quella forma di rinvio a personaggi e tendenze del mondo della fotografia, ma perché affidano un ruolo importante all’immagine fotografica nella narrazione. Infine, tutti i film realizzati dopo il 1955 mostrano l’abilità dell’autore nell’intersecare fotografia e cinema in maniera molto raffinata e intelligente.

La fotocinematografia kubrickiana si caratterizza per un percorso in tre atti (un modello narrativo che però egli ha sempre evitato): dalla narrazione per immagini del fotogiornalismo, al documentario come fase ibrida tra documento e fiction, al linguaggio cinematografico vero e proprio come più alta possibilità di plasmare la sequenza narrativa.

LG: Tu sei stata allieva del compianto Marcello Walter Bruno, uno dei principali studiosi italiani di Kubrick. Quanto la sua lezione ha contribuito allo sviluppo del tuo lavoro e quanto, secondo te, c’è ancora da approfondire su questo autore analizzato in svariate chiavi interpretative, ma sempre legate alla sola produzione filmica?

CM: Sono felice di potermi definire allieva di Marcello Walter Bruno. E sono onorata di portare avanti la sua eredità intellettuale. Look Over Look deve molto al genio di Bruno, alla sua guida maieutica fatta di condivisione, collaborazione, co-ideazione. Ma, curiosamente, la mia ricerca su Kubrick ha origine altrove. Durante il mio dottorato di ricerca ho trascorso un anno Londra e ho avuto la possibilità di lavorare come ricercatrice volontaria nello Stanley Kubrick Archive conservato presso l’Archives and Special Collections Centre del London College of Communication. In quel periodo ho lavorato sulle fotografie di produzione e post-produzione di 2001 e Full Metal Jacket e ho iniziato a comprendere il valore dell’immagine fotografica nell’opera kubrickiana. Sono passati, però, alcuni anni prima di avviare una vera e propria indagine sulla sua carriera fotocinematografica e l’occasione è arrivata come docente di un corso sul linguaggio audiovisivo in cui ho presentato Kubrick come paradigma del rapporto tra fotografia e cinema.

C’è ancora molto da dire su Stanley Kubrick perché – come mi ha insegnato Marcello Walter Bruno – la grandezza di un autore si misura anche sulla base della sua autocoscienza artistica o attitudine meta-testuale (il cinema che riflette su se stesso e su quelle che Vilém Flusser chiama immagini tecniche); sulla base della sua capacità di pensare e gestire ogni aspetto della lavorazione; sulla base della rete di influenze che soggiace alla sua produzione artistica. Nulla può essere lasciato al caso o può essere dato per scontato. La visione dei film richiede uno sguardo analitico che sia in grado di emanciparsi da ciò che già conosciamo e da ciò che siamo abituati ad applicare.