Nel 1934, a pochi mesi dal famigerato Čapaev, esce nelle sale sovietiche Junost’ Maksima – La giovinezza di Maksim, di Grigorij Kozincev e Leonid Trauberg. Dall’avanguardia e dalla Fabbrica dell’attore eccentrico (FEKS) sembra dunque sbocciare una rinnovata interpretazione del Realismo Socialista e di un eroe diverso, Maksim (Boris Čirkov), spensierato e ingenuo, travolto improvvisamente dalla causa e dalla necessità della rivoluzione.
Kozincev e Trauberg ambientano il primo capitolo di una fortunata e popolarissima trilogia (composta da La giovinezza di Maksim, 1934; Il ritorno di Maksim, 1937; I Sobborghi di Vyborg, 1939) nel 1910, durante un periodo teso e sospeso, in cui la violenta restaurazione sembra solo in apparenza aver domato e sedato le istanze pre-rivoluzionarie. La giovinezza di Maksim nasce dalla volontà di realizzare un film destinato al grande pubblico, un film a tratti didascalico, più lineare e immediato rispetto alla produzione, cospicua e riconosciuta dei due registi. Del compromesso fra estetica avanguardista e prodotto fieramente popolare restano però almeno le sequenze dinamiche e fresche dei festeggiamenti per il nuovo anno, delle carrozze che sfrecciano per le strade, o ancora quelle dello scontro fra la massa di operai e guardie e quelle dell’arresto e dell’arrivo in prigione di Maksim.
Sulla vita del sobborgo di Pietrogrado, sulla fabbrica e sulle strade domina la musica di Dmitrij Šostakovič, famoso musicista, compositore per il cinema e non solo, collaboratore di fiducia di Kozincev e Trauberg. Ogni coro, ogni canzone, ogni singola nota sembra appartenere al patrimonio culturale russo e a un immaginario condiviso e riconosciuto: l’opera di Šostakovič costruisce una vera e propria sinfonia pre-rivoluzionaria che abita i cuori dei personaggi e invade la vita degli spettatori.
La giovinezza di Maksim svolge la prima parte dell’educazione politica di Maksim e delinea un percorso di affrancamento e crescita del protagonista, riferendosi nella forma e nelle modalità al modello del Bildungsroman, scandito da tappe, episodi e riflessioni precise. Nel prologo, Polivanov (Michail Tarchanov) anziano membro del partito socialista e poi mentore dello stesso Maksim, in fuga dalle guardie durante i festeggiamenti per l’anno nuovo, incappa accidentalmente in un vecchio amico, con cui forse leggeva Marx, e nel confronto serrato fra i due a un certo punto con rabbia viene celebrato una sorta di ammonimento: “La rivoluzione è morta! Ma tu sei vivo!”. L’intenzione dell’amico è probabilmente quella di ricordare a Polivanov l’importanza della vita del singolo individuo e la fine del sogno rivoluzionario. Il monito che unisce rivoluzione e morte viene trasformato e tramandato da Polivanov in una promessa di vita che, in seguito, insegnerà a Maksim: “Tutti possono morire, noi possiamo costruire la rivoluzione”.
Il legame fra rivoluzione, morte e vita è all’origine del cambiamento e del processo conoscitivo di sé, dell’ideologia e dell’impegno politico di Maksim. Le morti degli amici Andrej (Aleksandr Kulakov) e Dëma (Stephan Kajukon) e quella di un compagno di fabbrica innescano una serie di turbamenti che conducono Maksim a ribellarsi e, nella sequenza del corteo funebre, che dalla fabbrica arriva a lambire la città, a opporsi fieramente alla richiesta delle guardie “di tornare in pace e con buona volontà” al lavoro. L’educazione di Maksim si cristallizza dapprima nel discorso urlato ai compagni di fabbrica, in quel momento tragico e disperato, e poi nel volantino che scrive, inneggiando allo sciopero di solidarietà. Il cammino di Maksim, la giovinezza, si conclude con il passaggio alla maturità, sancito dal bacio finale con Nataša (Valentina Kibardina) e con la missione segreta, accompagnata dal coro rivoluzionario che invita a trovare una via, una strada nuova di speranza e vita.