Margaret è una furia. Si scaglia contro sua madre Christina trasfigurata dalla rabbia, inarrestabile. Poco possono gli altri famigliari presenti, che tentano senza successo di arginarla perché nessuno si faccia male. E invece la madre viene colpita, sbatte la testa cadendo, giace esanime al suolo. Non c'è un prima, non c'è un contesto, restiamo ignari – e poco importa in realtà – di come si sia arrivati a tanto. Osserviamo straniati quella che al ralenti e soverchiata dalla musica diventa una coreografia grottesca e terribile.
Così si apre La Ligne – La linea invisibile di Ursula Meier, presentato a Berlino 2022, e la linea del titolo è quella che Margaret non può attraversare dopo un'ingiunzione a stare distante almeno cento metri da casa sua, dove la madre continua a vivere. Una linea dapprima solo virtuale, e poi tracciata sul terreno con la vernice dalla sorellina Marion di 13 anni, preoccupata dalle continue “invasioni” di Margaret e impegnata a mitigare una situazione impossibile.
Mano a mano che la storia si dipana, conosciamo una giovane donna dominata da una rabbia atavica, e una madre tanto melliflua quanto narcisista e passivo-aggressiva (Valeria Bruni Tedeschi riprende un ruolo che sembra il lato dark di quello de La pazza gioia, stavolta tutt'altro che adorabile). Quest'ultima implicitamente rimprovera alla prima di avere stroncato la sua carriera di pianista col suo solo venire al mondo, mentre spinge Marion a coltivare il canto nonostante evidenti disturbi respiratori e poco considera la figlia di mezzo, unica “non-artista” della famiglia.
La piccola grande peculiarità di La Ligne è proprio questo operare un chirurgico scavo nel rapporto fra le protagoniste procedendo solo in avanti, solo attraverso le interazioni quotidiane che si verificano dal momento dell'aggressione in poi, senza andare a rivangare nei traumi dell'infanzia come avviene d'abitudine nei drammi familiari. Come se nell'adulto e nelle sue modalità relazionali fosse già inscritto e quindi deducibile tutto il suo passato, senza che ci sia necessità di metterlo in scena. Cosa che in effetti è.
Meier cura solo l'esattezza di dialoghi e interpretazioni – ottime – e li abbandona a uno scenario grigio e piatto quanto il dolore di vivere quotidiano. Unica nota di colore, oltre alla linea turchina tracciata al suolo, costante memoria del disastro che si affaccia subito oltre l'ordinario, è la musica: Christina non pensa quasi ad altro, Marion utilizza la sua voce come collante familiare, e Margaret suona le sue canzoni nei locali notturni.
Ognuna produce la sua musica, che però è quasi sempre soffocata o contaminata da un intervento altrui, da un imprevisto, da un'interruzione ambientale. Quando non accade si ha infine comprensione, contatto, gioia commossa di relazionarsi all'altro.