L’immagine e la parola: sono due le coordinate su cui Jean Eustache costruisce il suo capolavoro massimalista La Maman et la putain, presentato al Cinema Ritrovato nella sua nuova versione restaurata. La poetica del regista, erede di quell’approccio ribelle impartito dai padri della Nouvelle Vague, si attualizza in una riflessione sul linguaggio filmico che è sì debitrice a Godard, Truffaut e Rivette, ma anche dotata di un’identità specifica, in qualche modo opposta alla visione del gruppo dei Cahiers.
La prima dimensione è quella puramente visiva: le immagini attraverso cui Eustache mette in scena il menage à trois del pigro e narcisista Alexandre, interpretato da Jean-Pierre Léaud, con l’infermiera Veronika e la commessa Marie. Il regista aveva già lavorato con Léaud in Le Père Noël a les yeux bleus (1966), una sorta di prologo giovanile, di poco precedente agli eventi del Maggio Francese. Da lì al 1973, anno in cui La Maman et la putain venne presentato al festival di Cannes, il mondo sarebbe cambiato per sempre.
Raccontando la confusione romantica di Alexandre, che nell’amore di Veronika e Marie cerca insieme stabilità (maman) e libertà (putain), l’autore usa lo spazio dell’inquadratura per narrare un sentimento popolare e un intero periodo storico: nel corso delle quasi quattro ore di film, Eustache registra lo smarrimento che avevo seguito la rivoluzione fallita di qualche anno prima.
Quella che dovrebbe essere una semplice commedia romantica, e che all’inizio potrebbe assomigliarvi, si rivela ben presto un gioco spaziale basato sui tre personaggi principali. Le lunghe conversazioni vengono scomposte in maniera analitica, ridotte a una serie di quadri distinti, in cui i protagonisti si affiancano, si separano, si guardano di sbieco – quasi mai frontalmente. Non conta solo l’intenzione dialogica dei personaggi, ma la loro presenza scenica, grazie a cui Eustache disegna una precisa dimensione caratteriale che è l’immagine di una situazione romantica irrisolvibile.
La seconda dimensione, altrettanto evidente, è quella dei dialoghi fluviali di cui il film è composto. Si è parlato spesso della precisione con cui Eustache aveva scritto la sceneggiatura, e di come avesse imposto ai suoi attori di recitarla con precisione filologica. “Un film fatto di parole”, lo definì durante un’intervista a Cannes: la parola è l’unità di misura del carattere di Alexandre, che sfrutta aneddoti, film, canzoni, romanzi per nutrire il suo ego.
L’esistenza del protagonista è una ricerca di parole altrui, un vampirismo linguistico volto a nascondere l’ubiquità del suo desiderio, a trasformare la conversazione in un passatempo. Delle parole, in realtà, Alexandre non si fa nulla: chiede a Veronika di parlare a vuoto, usando le sue chiacchiere come un’alternativa al sottofondo musicale della radio.
Nello spazio di questi scambi, La Maman et la putain produce l’antitesi della sua premessa romantica, e certifica il fallimento della liberazione sessuale di quegli anni: così la promiscua Veronika, presa coscienza del suo amore casto e contraddittorio per Alexandre, rivela in lacrime il suo dolore, in un monologo in presa diretta che rappresenta il climax emozionale della pellicola – il momento in cui il moto narcisista di Alexandre gli si ritorce contro.
La tensione fra il detto e il mostrato non si allenta mai. Le parole vaghe dei protagonisti narrano una storia di intellettualismi e tentativi di riflessione, di una Francia post ‘68 dove l’impeto rivoluzionario ha ceduto il passo all’indolenza. I volti, la giustapposizione dei corpi e i controcampi nelle scene di dialogo ne raccontano un’altra: quella di un’incapacità totale di percepire se stessi e quindi gli altri, di una necessità infantile di nascondersi nel vuoto della quotidianità.
È ormai noto l’intento autobiografico con cui Eustache aveva deciso di realizzare il film: il regista diceva di averlo scritto pensando a Françoise Lebrun, con cui era stato fidanzato, per il ruolo di Veronika, e a Jean Pierre Léaud come suo alter ego. Decostruendo l’odissea di Alexandre, però, Eustache si è spinto oltre la semplice narrazione di sé: ha dato forma cinematografica alla confusionaria realtà del suo tempo. Lo ha fatto mediante un esperimento formale, un esercizio che palesa il suo estremizzante artificio filmico, e che ci invita al tempo stesso a ragionare sulla verità umana e sentimentale dei suoi protagonisti.
La Maman et la putain rappresenta in questo senso l’apice di una filmografia personale e “realistica” come poche, e il testamento di una fervida, irrisolta sensibilità – forse la stessa che qualche anno dopo avrebbe spinto Eustache, rimasto paralizzato in seguito a un incidente, a scegliere di uccidersi. Un’opera totalizzante, epica e intimista, sconvolgente oggi come lo era cinquant’anni fa.