La prima silhouette che appare ne La morte corre sul fiume è quella di un uomo impiccato tracciato su un muretto con un gessetto, una simile stilizzazione della figura umana la esegue Pearl tagliando le sagome di due bambini, lei e il fratello John, servendosi delle banconote nascoste dal padre nella sua bambola di pezza. La schematizzazione dei contorni di un corpo che nell’infanzia caratterizza gran parte della finzione del gioco, riproponendo una realtà parallela somigliante al mondo degli adulti al quale ancora si è convinti di non appartenere, ricorre in un film fatto di luci e ombre, silhouette appunto, profili effimeri in perenne mutamento contro i quali si staglia la distinzione netta tra odio e amore, tatuata sulle dita del predicatore Powell (Robert Mitchum).
Il biglietto da visita di Powell è la propria ombra, una labile traccia lasciata per qualche istante sulla parete della stanza di John e Pearl, sinistra apparizione deformata dalla luce di un lampione, proiezione di una sagoma nera che fagocita l’ombra di John, una visita immateriale molto eloquente. La distorsione dell’ombra diviene uno degli strumenti espressivi che Charles Laughton, aiutato dalla fotografia di Stanley Cortez, carica di una potenza autonoma, l’iperbolizzazione dell’ombra manifesta un’estraneità apparente e perturbante che trova nello sdoppiamento e nel prolungamento della silhouette lo svelamento e la materializzazione della negatività interiore del pastore Powell. Come accade nei film espressionisti, la cinepresa, immersa nella coscienza del personaggio, proietta “l’interiorità sulla parete (cioè su di un secondo schermo, collocato en abîme rispetto al primo). L’ombra, immagine esterna, mostra ciò che sta avvenendo nel personaggio, ciò che il personaggio è. La sua proiezione equivale a un’“apertura” di quell’interiorità chiusa”. (Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra, Milano 2016)
L’imponente silhouette di Mitchum sul muro della cameretta di John e Pearl è immobile, il predicatore studia le sue prede, apparentemente è un uomo con cappello come tanti, l’ombra demoniaca però sembra tradirlo mostrando immediatamente le sue reali intenzioni, John viene inghiottito dai contorni netti di Powell, e l’evidente tesa del cappello fa presto a trasformarsi in un paio di corna caprine. Laughton prima di iniziare le riprese vede tutti i film di Griffith al Museum of Modern Art di New York, Charles Higham, il suo biografo, ricorda come questa esperienza sia stata fonte di ispirazione per l’ambientazione pastorale americana, e certamente ne sia derivata la scelta di Lillian Gish per la parte di Rachel, ma potremmo aggiungere quanto il ritorno a un cinema delle origini gli permetta di infrangere la rigidità delle convenzioni, una libertà esibita in ogni singola inquadratura dove lo spettatore incantato ritrova lo stupore dell’infanzia.
Nel film di Griffith The Sorrows of Satan (1926) l’arrivo del principe Lucio (Adolphe Menjou), Satana sotto mentite spoglie, è preceduto, come avviene per Powell, dalla comparsa della propria ombra incorniciata da un cappello a cilindro, questi contorni solo alla fine sveleranno al protagonista, interpretato da Ricardo Cortez (fratello di Stanley) la vera natura del diavolo in un inseguimento fatto di mostruose silhouette alate.
L’ombra diviene quindi un’emanazione dell’interiorità dell’individuo, le sue informazioni rivelano tutto ciò che la persona può nasconderci, queste ombre parlanti richiamano le osservazioni di Johann Caspar Lavater (Essays on Physiognomy, 1792) inerenti allo studio della fisiognomica. La lettura dell’ombra, decifrata attraverso il profilo delle silhouette tracciate da Lavater, è il riflesso dell’anima dell’essere umano, una diretta esteriorizzazione delle energie psichiche che lo hanno generato: “Cos’è meno, l’immagine di un individuo in carne ed ossa, o la sua semplice silhouette? Cosa non è del resto in grado di dirci! Vi è poco oro in essa, ma del più puro!”.