La natura dell’amore dovrebbe piacere a chi razionalizza costantemente: è un film che parla con il linguaggio dell'intellettualizzazione di cose che spesso sembrano inspiegabili pur essendo manifeste. In altre parole, se nei momenti di confusione sentimentale ci si rivolge ai Frammenti di un discorso amoroso di Barthes, le possibilità di rintracciare in questo film un riflesso di scampoli di esperienze crescono esponenzialmente: la protagonista capisce bene la teoria dell’amore, la insegna effettivamente in una università della terza età ma, nella pratica, anche il desiderio più carnale viene annegato nei contesti sociali che ci trasciniamo dietro in ogni relazione.

Non ci saranno risposte univoche o soluzioni giuste, ma è come se non ce ne fosse bisogno: l'obiettivo di Monia Chokri è "appesantire" l'amore con i contesti in modo tale da renderlo affascinante da seguire. A questo contribuiscono le scelte registiche (anche se a volte sembrano un tentativo di fare le cose in modo soltanto "diverso"), i dialoghi divertenti e accurati, e una garbata stilettata a chi ha notato in sé una nota di snobismo: gli alti standard morali non valgono nulla senza l'empatia per le persone di altri mondi, e vivere tutta la vita nella propria bolla sociale sembra quasi un'esperienza soffocante. Proprio questo dialogo-scontro con l'altro mondo è  l’”inquadratura” più importante del film, l’aspetto più politico di una commedia apparentemente romantica.

Quelle meglio riuscite della categoria sono spesso anche quelle che utilizzano i loro intrecci semplici - l’amore e i suoi esiti sono insiti nel concetto stesso di essere umano - come incubatrici di sperimentazione. Lo fa ad esempio La paura mangia l’anima di Fassbinder riprendendo gli stilemi dei melodrammi di Douglas Sirk per parlare di razzismo e dei meccanismi di oppressione sociale che spesso regolano lo stesso vivere comunitario. La regista di Babysitter lascia da parte il razzismo ma parla comunque di una donna intrappolata in un matrimonio senza sesso che ritrova la passione per l'amore attraverso un potente incontro smaccatamente sessuale con un operaio québécois dotato di attrazione tanto semplice quanto magnetica.

La regia è costellata di zoom, immagini particolarmente illuminate e linee di dialogo che si sovrappongono sullo sfondo di uno stile che richiama Alain Resnais. Le scene sono fissate con dettagli diversi, gli spazi non sono stabiliti attraverso carrellate anonime, ma piuttosto attraverso i personaggi. Quando incontriamo Sylvain, l'amante che porterà semplicità nella vita di Sophia, lui se ne sta nell'ombra, minaccioso, e la telecamera, invece di inquadrare un primo piano, si ferma su quel sentimento minaccioso e lo ingrandisce, in modo che si riveli gradualmente facendo sembrare gli amanti due piccioncini canadesi in un documentario sul mondo animale. E’ uno sguardo morboso che trasuda erotismo, ora trattenuto ora liberato, che segue una riflessioni fatta di corpi immersi - forse più propriamente incastrati - in dinamiche sociali che imbrigliano la primordialità.

Sembrerebbe una nuova variazione di un ciclo amoroso lungo secoli. Solo che stavolta non c’è più un voyeur maschile, ma un female gaze senza freni ed estremamente consapevole. Si può ancora osservare lo stesso canovaccio in maniera nuova perché non si indugia più su quello che è stato stratificato nel tempo: l’oggetto del desiderio non è più al centro dell’inquadratura, ma dietro la camera.