“Chiedersi se Genova è la città dei cantautori è come chiedersi come mai Liverpool ha generato i Beatles o perché il rock'n'roll sia nato negli Stati Uniti”: si apre così, su queste parole di Vittorio De Scalzi (storica voce dei New Trolls), il documentario scritto dal giornalista musicale Claudio Cabona e diretto da Yuri Della Casa e Paolo Fossati La nuova scuola genovese, un docufilm che esplora i punti di contatto e possibili background comuni tra cantautorato (genovese) e rap.

Non era impresa semplice condensare in 72 minuti di interviste la dimostrazione della tesi di partenza, ovvero disegnare a chiare linee il filo rosso della cultura musicale di una città che collega passato e presente, cantautorato e rap, ribellione antiborghese e vita di periferia.

Attraverso lo stratagemma (forse un po’ troppo televisivo) delle interviste doppie, si succedono davanti alla macchina da presa coppie alternate di musicisti, storici, testimoni della scena musicale genovese passata e presente, che si interrogano sulla possibilità di una concreta eredità culturale, di un avvenuto passaggio del testimone tra il cantautorato della cosiddetta scuola genovese degli anni ‘60 e la scena rap della Drilliguria ossia del collettivo Wild Bandana (costituito da Tedua, Izi, Bresh, Vaz Tè, Disme, Guesan e Ill Rave), luogo simbolico del nuovo fermento musicale ligure (sulla cresta dell’onda dal 2016 ormai). Così Cristiano De Andrè dialoga con Bresh, Tedua con Gino Paoli e Izi entra nel tempio del cantautorato nazionale, casa De Andrè, a dialogare con Dori Ghezzi (di fianco alla chitarra più vecchia di Faber e sullo sfondo di uno dei suoi album).

Sui contributi dei giovani musicisti, si allungano come quelle di numi tutelari, le ombre di Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè, i due cantautori della vecchia scuola genovese più frequentemente citati come portatori di quella fame di novità e svecchiamento della canzone melodica italiana a partire dai primi anni ‘60.

Tra una testimonianza e l’altra (in un montaggio che probabilmente poteva concedersi più ritmo, scorciando maggiormente la durata delle singole interviste e costruendo forse più numerosi parallelismi tra passato e presente, anche con l’uso di tributi video riguardanti i cantautori citati, di cui si sente un po’ la mancanza) indiscusso protagonista del film è il mare di Genova, celebrato con riprese panoramiche mozzafiato sostenute da un uso dotto delle musiche curate da Pivio e Aldo De Scalzi insieme a Genova stessa, descritta dalle riprese fotograficamente impeccabili tra i suoi vicoli, le chiese, i palazzi, la Fondazione De Andrè e la casa di Paoli a Nervi. Tra tutte quelle raccolte risultano illuminanti le testimonianze di Ivano Fossati e Gino Paoli, ma anche quella di Marracash.

Paoli ricorda che la famosa scuola genovese di cantautori altro non era che un gruppo di amici “eravamo ragazzi di strada e usavamo le parole della strada, eravamo dei ribelli e quando uscì Gioventù bruciata noi ci siamo riconosciuti in quella cosa lì in chi rifiutava i canoni ipocriti che comandavano fino ad allora, la canzone era un mezzo ipnotico non doveva far pensare e noi invece abbiamo voluto che fosse un modo per far pensare, un mezzo di espressione, una cosa contro l'ipocrisia”. 

Fossati riconosce nettamente i caratteri comuni tra il rap e la canzone d’autore, in primis quello politico “Il rap ha il desiderio di essere conflittuale con il potere è come un dovere non scritto, una volta si chiamava impegno oggi si fa e basta”. E in un montaggio alternato tra la sua intervista e quella di Marracash, che sembra mimare il ritmo di una battle rap, Marracash gli risponde che “no non è necessario essere in conflitto col potere, anche se per scrivere una canzone riuscita ti serve in effetti un antagonista”.

Che si tratti di cantautorato o di rap, di certo l’elemento vitale e comune resta il concetto primordiale di libertà, quella stessa libertà cantata da Faber in tutte le sue canzoni, traducendosi nelle sembianze di una costante critica ad ogni forma di potere. E, sempre parlando di libertà, Fossati riconosce anche questa prerogativa fondamentale ai ragazzi del rap, che per lui “hanno un coraggio particolare, a volte esprimono pensieri altissimi e poi immediatamente dopo si collegano a frasi di servizio che sembrano banali ma non lo sono. Loro hanno una libertà che si sono presi e inventati alla quale noi non abbiamo avuto mai il coraggio di accedere. I musicisti rap si abituano da subito a collaborare anche a distanza senza bisogno di essere già delle grandi star e questa capacità di guardare lontano e, contemporaneamente, guardare al proprio piccolo locale, è molto interessante, invece noi tendevamo ad essere delle isole e lavorare da soli, le collaborazioni per noi erano faticose per loro no e questo è ammirevole”.

Insomma il docufilm di Cabona è certamente un documento interessante e autentico che potrà rappresentare, soprattutto in futuro, un prezioso contributo alla ricostruzione della storia musicale genovese.  Contraddicendo ciò che disse in un'intervista qualche tempo fa un altro grande autore, Guccini: “Non penso esistano realmente la scuola genovese, quella romana, quella bolognese o quella napoletana. Esistono le città: Genova, Roma, Bologna e Napoli. Chi ne è figlio, ieri come oggi, ha un modo di scrivere canzoni diverso, perché si tratta di luoghi unici”.