La fondamentale rilevanza, storica e internazionale, di Mulholland Drive è stata istantaneamente evidente quando il film è stato presentato ormai vent’anni fa al Festival di Cannes. Da subito il dibattito intorno a questo oggetto è stato acceso ed esteso, e ogni aspetto del film è stato analizzato più e più volte dai critici e dagli appassionati di tutto il mondo, che hanno cercato di comprenderne gli sviluppi narrativi, le metafore, l’iconografia, i temi e la messa in scena, contribuendo alla creazione delle numerose teorie ancora oggi lette con avidità dai cinefili che si confrontano con questa straordinaria opera.

Sicuramente il film è diventato immediatamente un caso proprio grazie al nugolo di domande che si sono scatenate intorno ai suoi elementi più criptici, atti a comprendere la consecutio temporum degli eventi, il rapporto tra i personaggi, la risoluzione del mistero, il messaggio sotteso che il regista voleva far arrivare fino a noi, o che forse voleva raccontare innanzitutto per sé stesso, per elaborare la propria esperienza nell’industria hollywoodiana e nel mondo del cinema.

Ma credo ci sia un altro elemento che rende questo film così inquietante e al tempo stesso mortalmente attraente, e cioè il discorso che viene portato avanti sui concetti di finzione e realtà, di illusione e presa di coscienza, concetti che sono alla base del cinema e dell’esperienza spettatoriale, che però nell’analisi teorica contemporanea si affrontano poco rispetto alla ricchezza teorica dei primi decenni di vita dell’arte cinematografica. Più comunemente si fa riferimento al concetto di meta cinema quando un film riflette sulla propria matrice, il proprio contesto produttivo e i temi portanti del proprio settore, e negli anni si sono visti moltissimi capolavori che rientrano in questa categoria, da Effetto Notte (per altro appena tornato in sala anch’esso) a Fino all’ultimo respiro, film che esemplificano l’ampiezza del ragionamento sul cinema che è stato fatto in seno alla nouvelle vague francese.

Mulholland Drive, realizzato diversi decenni dopo, lavora anch’esso sul cinema, ambientandosi a Hollywood e avendo per protagonisti personaggi dello spettacolo, tanto più che uno dei filoni di interpretazione del film riflette proprio sull’esposizione di un meccanismo malato che fagocita e distrugge chi vi entra, che opera attraverso inquietanti figure stereotipate (produttori impassibili, vecchi registi, attori in declino che palpeggiano, persino un cowboy sempre vestito di tutto punto, emblema per eccellenza del cinema americano del passato), e soprattutto in cui l’arte e la professionalità sono assoggettate a interessi economici e amicizie personali.

Ma il film riflette sul cinema anche ragionando sul linguaggio, attraverso l’uso delle dissolvenze, di curiosi punti di vista che non sappiamo sempre attribuire con esattezza a un personaggio specifico e con l’uso insistito di soggettive che ci portano all’interno della scena, a osservare con la stessa attenzione dei personaggi gli oggetti che ci circondano. Di per sé questi elementi non sono nuovi, ma il modo in cui Lynch li usa per raccontare questo mondo, arricchendolo anche con una struggente storia d’amore e con la tensione del mistery, ci permette di vivere il film, oltre che vederlo.

Ed è proprio su questo concetto che rivedendo Mulholland Drive, al cinema per la prima volta, ho cominciato a riflettere su un’altra linea di interpretazione a cui prima non avevo mai pensato, che fa capo proprio alla percezione del film, al nostro atto di vedere. Probabilmente influenzata dalle recenti letture teoriche sullo spettatore e la ricezione del film, ma mi è apparso evidente che Mulholland Drive ci stia parlando della magia del cinema come illusione, concetto che ci permette, secondo Michotte, di convivere con la contraddizione tra l’osservazione del movimento sullo schermo che ci appare reale e la consapevolezza di essere testimoni di uno spettacolo finzionale.

La scena principale in cui risiede questo concetto è senza dubbio quella ambientata nel Club Silencio, in cui le due protagoniste si recano attratte da un impulso incomprensibile e cieco, per trovarsi di fronte a uno spettacolo…finto. Viene spiegato, a loro come a noi spettatori, che musica e voce dei performer sono in playback, che tutto ciò che stiamo vedendo è una finzione, eppure la sequenza ci mostra il progressivo abbandono delle protagoniste alla performance di Rebekah Del Rio, che canta appunto una canzone sull’amore non corrisposto, e scatena in loro un pianto sofferto, silenzioso e soprattutto empatico, capace di aderire a una rappresentazione completamente finzionale, che si interrompe bruscamente quando la cantante collassa al suolo mentre la sua voce continua ad echeggiare e abbracciare la scena.

Il film ci mostra ciò che avviene in noi, spettatori che entriamo in sala consapevoli di vedere solo una proiezione di qualcosa che è già avvenuto, il simulacro di un’esperienza già esaurita, ma che continua ad essere perpetuata fino a noi. E riusciamo ad appropriarci di quel frammento di realtà, a riconoscerci e immedesimarci, salvo poi risvegliarci bruscamente nel mondo reale. Interessante in questo senso è riportare un’altra osservazione di Michotte, che sottolinea come nel linguaggio comune “reale” possa essere considerato un sinonimo di familiare, mentre “irreale” apre a un universo di concetti come strano, sorprendente, nuovo, inatteso, stupefacente. Concetti che ben si adattano a descrivere l’esperienza cinematografica e, nello specifico, un’esperienza come Mulholland Drive.

L’irrealtà è insita anche nella cornice di senso più generale del film, relativo proprio nell’esperienza di Betty, che crea una illusione di vita perfetta, crea un film in cui poter vivere bene con una finta carriera e una finta relazione, in cui lei è inverosimilmente perfetta, salvo poi svegliarsi nell’atroce realtà, il mondo da cui non possiamo scappare in nessun modo. La natura traumatica del sogno aderisce con la realtà traumatica della fine del film, dell’angosciante momento in cui lo spettatore recupera il proprio punto di vista, prende atto dell’esperienza finzionale a cui ha assistito, si stacca dalla narrazione, ma resta ancora ancorato all’emozione provata durante l’esperienza.

Il triste tema che accompagna le immagini sovraesposte delle due protagoniste ci dà un attimo di tempo per realizzare che l’esperienza è finita, che quelle immagini per cui abbiamo sofferto, ci siamo interrogati, abbiamo amato sono solo ombre di qualcosa di ormai esaurito e ci resta addosso la tristezza per il destino di due giovani donne che sono morte.

Probabilmente parte del fascino magnetico di questo film risiede proprio nella sua capacità di entrare in contatto con la parte più inconscia del nostro essere spettatore spiazzandoci e al tempo stesso facendoci sentire intimamente compresi, anche grazie all’indulgenza, in numerosi momenti del film, alla suspense e alla tensione erotica, elementi che compiacciono e attivano lo sguardo dello spettatore. Un gioco tra attrazione e spavento gestito con mirabile equilibrio, reso immortale e rilevante per la storia del cinema anche in virtù dell’intima riflessione che compie sul media e sull’industria del cinema.