La perla, tratta da un racconto di John Steinbeck, e da lui co-sceneggiata, è una feroce parabola di Emilio Fernández sul potere divisivo della ricchezza all'interno della struttura sociale. Una parabola in forma di melodramma, e incastonata nella natura immanente creata dal suo inseparabile direttore della fotografia Gabriel Figueroa. La perla del titolo, abbacinante, enorme, fuori dall'ordinario, capace di cambiare per sempre la vita di chi ne entri in possesso, viene un giorno trovata dal pescatore Kino (Pedro Armendáriz, uno degli attori feticcio di Fernández), sino a quel momento in difficoltà come tutti gli altri nel guadagnare qualcosa da portare a casa alla moglie Juana (María Elena Marqués), e in balia della buona sorte di fronte a imprevisti come uno spaventoso morso di scorpione al figlio neonato.
Quando Kino trova la perla smette di essere uno fra tanti, un pescatore di perle qualunque, e tutto il villaggio comincia a parlare di lui. Anche perché è Kino stesso, per cortesia, ingenuità e orgoglio, a mostrarla ogniqualvolta glielo si chieda. E il suo maestoso luccicore genera sguardi e sentimenti nuovi in quella comunità adusa solo a umili consuetudini. Sullo stesso volto di Kino, che dice a se stesso “Sono un uomo ricco” fra tentativo di auto-convincimento e stolidità, e non fa che ripetere come la perla serva primariamente a dare un'istruzione al figlio, baluginano ombre di avidità e desiderio di ascesa sociale.
Fernández, fra i massimi esponenti dell'età dell'oro del cinema messicano ma prima ancora combattente della rivoluzione, non nasconde la sua antipatia per la ricchezza ma soprattutto per la tentazione individuale a elevarsi al di sopra della propria comunità. Forse critico di quella fame di successo che aveva conosciuto fuggiasco a Hollywood, prima di poter tornare in patria e cominciare a girare film da regista, costruisce un'inappuntabile apologia dell'umiltà, personificata dagli occhi inquieti e onniscienti della moglie Juana. E non a caso il massimo del disprezzo e della derisione li riserva al medico e allo strozzino, le due figure che si distinguono per possesso di capitale culturale e materiale, e li usano per approfittarsi degli altri.
Questo elogio della semplicità, con valorizzazione - come di rigore in Fernández - della cultura e del paesaggio messicani, viene argomentato dalla sontuosità delle immagini capolavoro di Figueroa: espressionista nella creazione delle ombre sui volti degli attori, panteista nel racconto della natura, metafisico nella rappresentazione delle figure in attesa sulla spiaggia (che ricordano molto da vicino L'isola dei morti di Böcklin), non c'è niente che il suo occhio non sappia mettere in scena ed elevare.