Daniel è un ragazzo che vorrebbe diventare prete ma la sua fedina penale non glielo permette. Uscito dal riformatorio per buona condotta, dopo una notte di alcol, sesso e droga, si dirige verso una segheria nella provincia di Varsavia, dove deve fare un’esperienza di lavoro. A questa segheria però non lavorerà mai perché, fermatosi in una chiesa, viene scambiato per un sacerdote e incaricato di sostituire il parroco per qualche giorno. I giorni diventano mesi e il ragazzo impara pian piano a conoscere la piccola comunità e i suoi dolorosi segreti.
Presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia 2019 e candidato poi agli Oscar 2020 come Miglior Film Internazionale, Corpus Christi, del regista polacco Jan Komasa, è uscito nelle sale italiane solo nel 2021, dopo la distribuzione del suo The Hater (2020) su piattaforma. Così come Corpus Christi parla di una vocazione personale al bene che, in modo anomalo, investe la vita di un’intera comunità, nel successivo The Hater (2020) il regista racconta di una sorta di chiamata al male, di un odio che, alimentato dai social network, da virtuale diventa mortale.
Un cinema etico quindi quello di Komasa, e di conseguenza anche morale, sociale e politico. Un cinema che in Corpus Christi parla di una piccola comunità di paese ma anche di comunità in senso lato, facendoci pensare alla realtà geografica europea di cui ci sentiamo parte - per condivisione di valori, storia e cultura - ma anche a quella più globale del post pandemia. Un cinema che affronta temi come la solitudine, la marginalità, la paura, la rabbia, la voglia di vendetta e di contro il bisogno di condividere, di essere insieme, compresi, perdonati e amati. Tutti temi che da sempre ci interrogano nel profondo, che ci riguardano sia collettivamente che individualmente. Ma individui e comunità per Komasa sono persone reali e soprattutto corpi. La storia del film è infatti ispirata ad un fatto di cronaca che risale ai primi anni 2000 - e che ricalca altri episodi di persone che si fingono autorità religiose - e il suo stesso titolo, Corpus Christi, rimanda da subito a una fisicità molto concreta.
Che siano vivi, feriti o morti, quelli del film sono corpi che nel loro patire, nella loro personale passione, si fanno immagine, ideale e reale, del Cristo del titolo, di un morto in croce. Pensiamo alla croce cerimoniale che in una delle prime scene - quella della messa in carcere - si sovrappone in un intenso primo piano al volto di Daniel o all’immagine del suo denudarsi davanti all’altare sotto a un Cristo crocifisso, ostentando i tatuaggi sul costato come ferite. E l’intera pellicola è percorsa da questi riferimenti cristologici, visivi e metaforici: dall’anziana a cui sul punto di morte Daniel sussurra “tu non morirai”, alla vicenda del cadavere - un povero Cristo - cui viene negato il funerale in quanto ritenuto colpevole di un incidete stradale mortale.
La forte fisicità degli interpreti si intreccia poi a questa narrazione filmica di corpi, alimentandola e aumentandone la potenza. Nel viso, ambiguo e scavato, del giovane protagonista, l’attore Bartosz Bielenia, trapelano sia un’umana voglia di vivere sia un aspetto ieratico e quasi trascendentale, così come nella durezza dei tratti di Aleksandra Konieczna - la severa e silente perpetua a comando della parrocchia - si nasconde la fragilità di una madre che ha sepolto il suo dolore per un figlio morto nell’odio per il presunto assassino.
Siamo tutti sacerdoti, ci dice Komasa, e al tempo stesso siamo tutti feriti, vulnerabili e in cerca di una qualche salvezza. Tanto che la rabbia - sia quella che brucia dentro Daniel sia quella che unisce la piccola comunità religiosa - sembra ad un tratto aprirsi alla consolazione del non essere soli, alla capacità di sorreggersi a vicenda, al di là delle regole civili e religiose comunemente acquisite. Eppure, nonostante questo spiraglio che ad un certo punto Komasa pare offrirci, la fine del film ci spiazza con un finale aperto. Un punto interrogativo che non rivela nulla se non l’apparente mancanza di qualsiasi riscatto imminente. Quasi a voler suggerire che il potere della preghiera - religiosa o laica che sia - risieda prima di tutto nel suo essere domanda, indipendentemente dalla risposta.