Un gruppo di professori e due alunni adolescenti sono seduti intorno al tavolo di un’aula scolastica: la macchina da presa gira intorno a loro, salta dagli uni agli altri, evidenziando la tensione del momento, perché, nonostante i toni pacifici e incoraggianti, è chiaro come i due studenti stiano subendo un interrogatorio volto a fargli rivelare il nome di un possibile sospettato. Quale sia il capo d’accusa, agli spettatori non viene ancora rivelato.

È questo il prologo de La sala professori (Das Lehrerzimmer) di Ilker Çatak, presentato in concorso nella sezione Panorama della Berlinale 2023 e candidato agli Oscar come Miglior film internazionale, un film che si sviluppa come un giallo ambientato tra le mura scolastiche, il cui obiettivo non è però quello di risolvere un caso ma di usarlo come pretesto per mettere in scena una rappresentazione intensa e sfaccettata del sistema educativo tedesco e delle sue contraddizioni.

Al centro della vicenda c’è Clara Nowak (Leonie Benesch), giovane insegnante al suo primo impiego, che decide di girare un video di nascosto per scoprire chi è l’autore dei furti che si stanno verificando nella scuola, e che hanno provocato un clima di sospetto e diffidenza che ha negli studenti le sue prime vittime. Gli indizi portano alla signora Kuhn, che viene allontanata dalla scuola, ma l’evento si ripercuote sul figlio, Oskar (Leonard Stettnisch) brillante studente di matematica di Clara, che comincia a sviluppare atteggiamenti violenti nei confronti degli altri.

Clara incarna quelli che dovrebbero idealmente essere i valori dell’insegnamento, primo fra tutti il desiderio di voler fare il bene degli studenti, andando anche contro i propri interessi e quelli dei suoi colleghi, se necessario. Ma se la sua determinazione e i suoi solidi principi assumono tratti quasi utopici, più realistiche sono invece le conseguenze delle sue azioni, amara esemplificazione di come le buone intenzioni abbiano spesso cattive conseguenze.

La domanda, implicita, è se ci sia un protocollo da poter attuare per garantire che ciò non accada, e la risposta, altrettanto implicita, è che non esiste un modus operandi univoco da seguire per arrivare alla soluzione giusta. Perché, a differenza del cubo di Rubik che Clara condivide con Oskar, non c’è una serie predefinita di passaggi da effettuare per risolvere il problema.

Clara si trova così al centro di un fuoco incrociato di professori, alunni e genitori, in un catastrofico precipitare degli eventi, con cui La sala professori assume i connotati di un thriller psicologico teso e serrato – complici le musiche incalzanti di Marvin Miller – intorno alla sua protagonista, che cerca di tenersi in bilico sull’orlo del precipizio, salda nei suoi principi.

Allo stesso tempo, sono molteplici le dinamiche legate al sistema scolastico che vengono sviscerate: l’integrazione e il razzismo sono le prime, anche in ordine cronologico, perché il primo sospettato dei furti è Ali, figlio di immigrati turchi, ma le accuse, rivelatesi infondate, vengono tacciate di razzismo dai genitori stessi, che nella convocazione vengono invitati ad esprimersi esclusivamente in tedesco.

Il razzismo interiorizzato è, allo stesso tempo, anche la meno rilevante delle problematiche che vengono esaminate, perché l’attenzione di Çatak si focalizza su domande di più difficile risposta, come quale sia la responsabilità degli adulti nei confronti delle azioni dei più giovani e chi, tra genitori e insegnanti, abbia la responsabilità maggiore nella loro educazione.

Se il comportamento dei ragazzi viene giustificato, infatti, perché ancora privi della consapevolezza delle conseguenze che le loro azioni possono causare, in un egoismo che è pero sinonimo di determinazione e motivazione a combattere per i propri ideali – come nel caso dell’articolo sul giornale scolastico o delle azioni di Oskar –, meno indulgente è la rappresentazione di genitori e professori, che tendono a curarsi solo dei propri interessi, in un atteggiamento più scaltro di quello di Clara ma chiaramente egoista.

Ne emerge un quadro vivido e realistico di un sistema educativo le cui falle non sono da rintracciare nel malfunzionamento del sistema informatico o nel programma di matematica troppo avanzato, ma nell’assenza di una connessione empatica con gli altri che permetta a tutte le parti in causa di uscire dai loro ruoli predefiniti per dimostrare una reale partecipazione emotiva.

Ma anche nella raffigurazione delle criticità sopraelencate, non c’è mai una rappresentazione assoluta di colpe e virtù, perché in tutte le situazioni messe in scena la sensazione dominante è quella della difficoltà e dell’equivocità che presentano, e di come una chiara identificazione di colpevoli e vittime non sia possibile.

E Clara è la prima a saperlo: in una scena che ne ricorda, specularmente, un’altra egualmente simbolica de Il sospetto di Thomas Vinterberg, Clara è sola al centro di un’onda di studenti e docenti che sembra travolgerla, tutti con la stessa camicetta con le stelle che chi ha compiuto il furto indossa nel video, metafora visiva del dubbio insinuante di aver commesso un terribile errore.

Ma, anche in questo caso, il suo sarebbe un errore giustificabile e le sue azioni, compiute in nome di una vera dedizione al suo lavoro e ai suoi valori, le varrebbero comunque il riconoscimento che merita. Almeno al cinema.