Tutti i giorni Anne (Olivia Colman) fa visita al vecchio padre Anthony (Anthony Hopkins) nel suo appartamento. L'uomo sull’ottantina ha preso molto male la notizia dell’imminente trasferimento della figlia a Parigi, per seguire il nuovo fidanzato. Che ne sarà di lui? Come farà se anche questa figlia lo abbandona? Un attimo dopo, nello stesso salotto un uomo è seduto in poltrona a leggere il giornale: dice di essere il padrone di casa, nonché marito di Anne. La vita di Anthony procede per frammenti sconnessi, che la sua mente o la sua memoria non riescono più a collazionare.  

È costruito così The Father di Florian Zeller, come un vero kammerspiel nel quale l'azione, poca e per di più interiore, si svolge in ambienti raccolti, di piccole dimensioni (il salotto, la camera da letto, la cucina) nei quali si accorcia la distanza tra il pubblico e gli attori in modo da poter apprezzare a pieno le piccole sfumature nascoste nei gesti o nelle espressioni dei protagonisti. Nella sublime interpretazione di Anthony Hopkins (secondo premio Oscar come miglior attore, ventinove anni dopo quello per Il silenzio degli innocenti) viene privilegiata l’analisi intimistica del personaggio, a tal punto che tutto il film è costruito su questo paradossale rovesciamento della prospettiva, in direzione soggettiva.

Forse per la prima volta in un film sulla demenza senile (dopo la prospettiva di coppia in Ella & John - The Leisure Seeker di Paolo Virzì, e quella genitoriale di Florida di Philippe Le Guay) quello che noi vediamo, ciò che viene messo in scena non è il punto di vista dei familiari né la loro sofferenza rispetto alla perdita di memoria del congiunto afflitto da demenza. Ma la prospettiva scelta è appunto quella soggettiva del protagonista, con tutta la confusione e il disorientamento che ciò comporta. La traccia narrativa è costruita in maniera bidimensionale, sul doppio binario del tempo e dello spazio.

Il tempo è un magma confuso e sfocato restituito in tutto il suo annebbiamento sbiadito attraverso l’uso di un montaggio sfalsato e non consecutivo degli eventi. Tanto che, con una sfumatura quasi tragicomica, gli unici riferimenti narrativi sicuri che sentiamo di avere ad un certo punto del film sono il pollo che ci sarà per cena, o l’orologio da polso del protagonista che tornano in diverse scene come costanti della trama. Lo spazio dentro cui accade l’azione invece, sembra restare l’unico nesso solido e affidabile presente nella costruzione filmica. Gli attori si muovono sempre negli stessi ambienti (anche se di volta in volta percepiti come estranei o familiari dal protagonista) a tal punto che lo spettatore ne viene quasi rassicurato, nel suo sforzo continuo di ricostruzione dei fatti a partire da ciò che gli viene offerto come appiglio nella logica di comprensione. Tanto che lo spostamento di oggetti nello spazio casalingo è percepito come minaccia non solo da Anthony, ma pure da chi guarda la sua vita accadere: un mucchio di sedie nuove che si materializzano in soggiorno, o un dipinto che scompare dal suo posto sopra al caminetto.

La situazione cognitiva spaesata di Anthony è resa attraverso questa assimilazione di informazioni che solo a intermittenza sono consecutive e consequenziali. Così come gli scambi che avvengono con l’ambiente circostante o con gli altri attori della storia non permettono né a lui né allo spettatore inerme di attuare una ricostruzione certa delle sue rappresentazioni mentali o di schemi cognitivi (come direbbe Piaget) ben organizzati. Quegli schemi mentali ci legano al guscio della nostra abitazione, rassicurandoci nella loro fissità sempre uguale a se stessa, fino a quando non capita che li perdiamo - come Anthony li perde.

Così come gli stessi personaggi interpretati da diversi attori vogliono rendere il senso della confusione assoluta nella costruzione di una realtà inesistente. Che cosa succede nella mente di una persona che perde se stessa con la demenza senile? Si smarrisce, dimentica persino il suo stesso nome e chi egli sia, fino ad arrivare a quel momento in cui avrà perso persino sé stesso. Non è forse oscenamente vero che nel momento esatto in cui non sapessimo più nemmeno il nostro nome torneremmo bimbi in fasce che reclamano a gran voce la loro mamma? “Mamma, voglio mammina” così Anthony scoppia in un pianto a dirotto (catartico per tutti) che commuove impietosamente qualunque spettatore in sala.

Dopo aver strenuamente resistito alla tortura costituita dalla rappresentazione scenica, fotografica, emotiva del caos nella mente dell’anziano, non possiamo fare altro che empatizzare con lui e con il suo senso di smarrimento assoluto e sciogliere le nostre lacrime insieme alle sue nel pianto liberatorio del finale. Sotto la lente d’ingrandimento del regista torniamo a sentirci piccoli come Anthony, nel suo viaggio tormentato e circolare dall’ultimo atto della vita di un uomo al primo vagito tra le braccia di sua madre.