Nel suo ultimo film La tigre bianca (2021), Ramin Bahrani riscrive, a più di trent’anni dalla sua pubblicazione, la domanda provocatoria che dà il titolo al saggio di Gayatri Chakravorty Spivak che ha gettato le basi per gli studi postcoloniali: “Può il subalterno parlare?”. Invocando il marxismo gramsciano e la decostruzione di Derrida, Spivak si chiedeva se il soggetto subalterno ai margini dell’Impero potesse parlare e articolare la sua opposizione all’eurocentrismo e alla “forclusione dell’informante nativo” che la filosofa indiana identificava con “la più povera donna del Sud”.

Ispirandosi al romanzo omonimo di Aravind Adiga, vincitore del Man Booker Prize nel 2008, Bahrani, a cui il romanzo è originariamente dedicato, si chiede se il subalterno possa solo limitarsi a parlare, portando alle conseguenze estreme quella aspirazione, non solo al riconoscimento della propria identità, ma anche all’intervento sulla realtà sociale e politica già presente nel saggio di Spivak, più volte da lei stessa rivisto nel corso degli anni.

La sceneggiatura dello stesso Bahrani, candidata all’Oscar 2021, segue, attraverso i virtuosismi della macchina da presa e una struttura narrativa complessa fatta di flashback nel flashback, l’emancipazione di Balram, da povero servo di Ashok e Pinky Madam nella tentacolare Delhi a uomo d’affari di Bangalore, senza scrupoli ma per proteggere gli sfruttati. Balram è la tigre bianca del titolo, un uomo che è riuscito ad essere l’eccezione, come l’animale che nasce una sola volta in una generazione. Come il romanzo di Adiga, il film di Bahrani porta ad uno stadio successivo l’analisi postcoloniale, indagando la produzione della mentalità del perfetto servitore non solo come risultato dell’egemonia culturale e politica occidentale ma anche grazie alla complicità da parte di soggetti coloniali, come Ashok e Pinky Madam, che assumono atteggiamenti liberal e progressisti senza rendersi conto che il loro non è altro che il paternalismo dei colonizzatori aggiornato alle dinamiche sociali, politiche ed economiche del secondo millennio.

Giovani, belli, ricchi ed apparentemente emancipati da un’educazione universitaria americana, Ashok e Pinky Madam riproducono per le strade di Delhi e per i corridoi dei suoi palazzi le stesse strategie di sfruttamento e corruzione delle loro famiglie criminali di origine. Sono parenti indiani dei Dalton di Chicago di Native Son (2019) di Rashid Johnson, tratto da Paura (1940) di Richard Wright, capostipite del romanzo di protesta, e dei Park di Parasite (2019) di Boong Joon-ho. La loro benevolenza non permette nessun effettivo miglioramento per gli oppressi: come Bigger nel film di Johnson e il padre Kim Ki-taek in Parasite, Balram è un autista senza prospettive di uscire dal circolo vizioso dello sfruttamento a cui la sua condizione di subalterno lo condanna. Con loro, Balram condivide il destino di ribellione, ma, a differenza loro, riuscirà ad utilizzare il sistema per migliorare la sua posizione e quella dei suoi dipendenti.

Come il romanzo di Adiga, anche il film di Bahrani è basato su una struttura epistolare: Balram racconta la sua storia in una lunga lettera al premier cinese Wen Jiabao che si conclude con l’affermazione che questo sarà il secolo dell’uomo giallo e dell’uomo scuro, una verità che sovverte l’egemonia culturale e politica occidentale, ironicamente espressa in quella stessa forma epistolare che rappresenta la genesi del moderno romanzo borghese europeo settecentesco.

Balram è quindi un fratello indiano del pakistano Changez, protagonista de Il fondamentalista riluttante (2012) di Mira Nair: divisi da frontiere imposte e dal credo religioso, uniti dalla domanda se il subalterno possa davvero solo limitarsi a parlare o debba invece agire in prima persona con un’urgenza non più procrastinabile, senza ricercare nessuna benevolenza redentiva nell’oppressione occidentale.