C’è un disegno dietro La zona d’interesse, una disposizione, un design, una progettualità particolare… e forse è proprio questo che ci spiazza, ci lascia soli, con tanto da elaborare.

Per iniziare, ha senso chiedersi da subito una cosa. L’ultimo film di Jonathan Glazer è davvero una riflessione sull’etica dello sguardo? Le immagini vivono di quella che Michele Guerra, parlando proprio delle immagini della Shoah, chiamava pressione del fuoricampo? Forse sì, ma proviamo qui a cambiare il punto. Forse questo film ha meno a che fare con lo sguardo e più con il concetto di posizionamento. Forse non si pone la questione di cosa e come guardare, ma di cosa e come posizionare. Più che un’osservazione, La zona d’interesse sembra un rilievo topografico.

Allora, le domande possono essere altre. Qual è la posizione del comandante Rudolf Höss, della moglie Hedwig e della famiglia numerosa? Stanno in una casa con giardino appena fuori Auschwitz, nella prossimità del muro di delimitazione e vivono con serenità e quotidianità (la banalità del male… lo hanno detto in molti, è tutto vero e non meno attuale).

E come sono posizionati rispetto alla messa in scena? Recitano sotto l’occhio di macchine da presa sparse per la casa e per il giardino, più o meno nascoste e monitorate da remoto. Non c’è nessun operatore sulla scena, solo gli attori a performare una vita sotto la rigida sorveglianza invisibile del film. Quasi il contrario dell’osservazione partecipante, possiamo chiamarla abitazione osservata.

Per questo anche qui Jonathan Glazer, con il suo formalismo estremo, ibrida cinema e videoarte affidando al design la determinazione degli spazi (interni ed esterni), delle planimetrie e delle architetture, su cui proietta un forte controllo come dimensione preponderante: dal padre che lo esibisce fuori campo (nel modo che sappiamo), la madre che lo esibisce in casa (in un modo che possiamo intendere simile), fino ai figli che lo esibiscono tra di loro, emulando e ripetendo.

Eppure, come dicevamo, quello che questo film decide di non mostrare non è un tema che ricade nel visivo (e quindi nell’impossibilità di essere visto), ma nel sonoro (quindi nell’impossibilità di non essere sentito). Più che un non-detto o un non-mostrato, diventa un forzato a sentire. Il sonoro (che ancora è design) è l’unico strumento che può inscrivere lo spazio dell’esperienza filmica, l’unico in grado di determinare una dimensione ambientale immersiva. Per quanto assente nel campo del visibile, il rumore di Auschwitz in sala è ovunque, arriva da ogni angolo, non segue la monodirezione visiva, ma un andamento reticolare che immerge in senso profondo.

Seguendo allora questa progettualità – per cui davvero il termine installazione non è usato a sproposito – Glazer dissemina la lunga sorveglianza assordante con brevi disinneschi (come le immagini in negativo di piccoli atti sovversivi). In particolare, nel finale, un “salto visionario” in avanti sui lager oggi riorganizzati, e messi a lucido come musei, apre ancora a un numero infinito di ipotesi.

La cura e l’attenzione dedicate a oggetti e spazi drammatici viste con gli occhi del protagonista, creano un complesso etico e semantico, che poi è lo stesso che si crea per tutto il film, nel percepire le tracce di un dolore storicamente determinato inscritte in un lavoro che, come l’arte contemporanea, è quasi più un progetto articolato e complesso, curatissimo, una messa a disposizione, un dispositivo linguistico.

Una brace, che ci lascia soli, immersi, ma impossibilitati a non percepirne il fumo.