Vincitore a Cannes del Prize of Originality Award, Lamb è un folk horror norreno immerso in un’atmosfera che sposa il fantasy al dramma familiare. In un freddo e sperduto paese dell’Islanda, Maria e Ingvar vivono in completa solitudine allevando pecore e dedicandosi al lavoro quotidiano nei campi. Nella vallata si avverte un senso incombente di sciagura che si materializza sotto forma di un ospite inatteso: lo strano figlioletto di una pecora che la coppia decide di allevare sottraendolo alla madre legittima. Una presenza minacciosa continua ad aleggiare intorno, e intanto, è in arrivo un altro ospite.  

L’immaginario che il regista islandese dipinge sembra fuoriuscito da un bestiario suddiviso in tre atti che ne delineano la progressione drammaturgica e che potremmo intitolare: hic et nunc (come dice in una scena Ingvar quando ammette di voler restare sempre nella fattoria natia); l’ospite (in riferimento al misterioso personaggio sopraggiunto); la natura matrigna (cruenta risoluzione della vicenda in cui la natura esige il tributo di sangue). Sono tre tappe di un percorso immersivo in cui dominano le suggestioni di una terra arcana, schiacciata da una tensione sotterranea e percorsa da un anelito magico che situa il lungometraggio al confine tra la categoria dello strano e quella del meraviglioso, come insegnava nel 1970 Todorov discorrendo del genere fantastico.

Lamb è il frutto di una mescolanza di visioni e svolte narrative che lo rendono un film ipnotico, in perfetto equilibrio tra l’elemento mitologico - troll e creature demoniche sembrano sempre sul punto di sgusciar fuori per infrangere le regole del reale – e il fantastico psicanalitico, sentiero perturbante battuto dalle lacerazioni dell’anima e dai rovesciamenti prodotti dall’inconscio. Non è un caso che il “mondo altro” sia annunciato attraverso una serie di simboli e presagi – gli sguardi in macchina degli animali belanti, gli incubi ricorrenti di Maria, il “limes” che separa il dentro (l’ambiente domestico) dal fuori (il paesaggio ingovernabile), nel continuo alternarsi di intime geometrie casalinghe e spazi esterni ostili – e una lenta penetrazione della macchina da presa nella quotidianità di una coppia stretta in un disagio sentimentale quasi afasico, frutto di un trauma non del tutto rielaborato che verrà fuori dopo aver adottato la strana creatura antropomorfa.    

Se per atmosfere e genere Lamb ricorda Border, in cui il fantasy misterico era inghiottito in un universo terreo contaminato, il film si avvicina di più al folk horror intimista di Robert Eggers (The VVitch), per l’uso insistito del quadro composito con paesaggi e mondo animale, e per il modo in cui il regista fa interagire il fantastico all’interno di un reale immoto e atrofizzato, attraverso spiragli di magia (nera) che agiscono lungo il confine che separa la natura dalla cultura.

L’esordio registico di Valdimar Jóhannsson, pur costellato di allusioni e da un ermetismo incantato, lascia che i suoi elementi costitutivi, lucidamente esposti in un campionario panico, si rendano perfettamente decifrabili, in un ordito arcano in cui l’umano, parafrasando Louis Vax, tende le braccia al genere fantastico, consentendo in toto alla sua ipnotica seduzione.