L’isola di Medea di Sergio Naitza documenta, attraverso interviste e immagini di archivio, l’incontro tra Pier Paolo Pasolini e Maria Callas sul set di Medea, girato nel 1969 tra la laguna di Grado e la Cappadocia. Entrambi gli artisti sono ad un punto sentimentalmente e professionalmente delicato della loro vita: la cantante lirica è segnata dalla fine della relazione con Onassis e dal matrimonio dell’armatore greco con Jacqueline Kennedy; il regista vive una relazione tormentata con Ninetto Davoli che si avvia al termine dopo nove anni. La Callas non ha più la voce di un tempo e cerca nel cinema un possibile nuovo sbocco professionale, Pasolini si rivolgeva alla classicità per indagare con nuovi registri stilistici il tema caratterizzante i suoi film: il rapporto tra il mondo povero e plebeo, sottoproletario e irrazionale, e il mondo colto, borghese e storico, laico e razionale. Per Pasolini, l’amore tra Medea a Giasone è il modo per indagare l’incontro e lo scontro tra questi due mondi, con la sacerdotessa che rappresenta il primo polo e l’argonauta il secondo.

Il documentario di Naitza si avvale dei ricordi di amici, produttori e collaboratori del regista e della cantante per ricostruirne in modo appassionato il rapporto che destabilizza le stesse polarità attraverso cui, sul set, le riprese del film ricostruiscono il mito di Medea. Nella storia d’amore tra Pasolini e Callas, un amore che non osa pronunciare il proprio nome perché va al di là delle definizioni di eterosessualità e omosessualità, entrambi occupano, secondo le ricostruzioni degli amici, le polarità del razionale e irrazionale: come definire infatti il comportamento di Pasolini, il regista e quindi la persona che razionalmente dirige, che bacia la Callas e le regala un anello a fine riprese o quello della Callas che si innamora dell’intelletto del regista ma crede di poterlo curare della propria omosessualità? La celebre fotografia di Pasolini in costume da bagno, vicino alla Callas in costume per le riprese con Giuseppe Gentile, allora celebre olimpionico, nel ruolo di Giasone separato dai due, è significativa del rapporto che si stava costruendo sul set. Lo stesso direttore di produzione, Fernando Franchi, racconta del disagio di Gentile per quella che sentiva come la sua condizione di uomo oggetto che metteva in crisi la sua concezione di mascolinità. Un'altra polarità, maschile-femminile, che la narrazione de L’isola di Medea tende a destabilizzare.

Contemporaneamente, inoltre, il documentario ricostruisce anche l’altro oggetto del desiderio di Pasolini: la sua narrazione si apre, infatti, con la voce narrante di Ninetto Davoli e il ritorno alla laguna di Grado dell’attore che ricorda i giorni trascorsi al fianco dell’intellettuale mentre il film veniva girato. Il loro rapporto è descritto con termini che confondono la sfera domestica e professionale. Davoli, inoltre, appare nel documentario con le stesse caratteristiche che le testimonianze di Dacia Maraini, Piero Tosi, Gabriella Pescucci e Piera Degli Esposti attribuiscono a Maria Callas: entrambi bambini di un’ingenuità sconfinata, ma capaci in qualche modo di attivare il desiderio del regista e di sovvertire ancora una volta due poli ben precisi: comando e subalternità.

In “Al di là del significante?”, un contributo al fondamentale volume Erotismo, Eversione, Merce, in cui compare anche un provocatorio saggio di Pasolini, Félix Guattari ci invita ad andare “oltre il sistema delle significazioni dominanti” che imbrigliano il desiderio in modelli di possesso e riproduzione. La narrazione de L’isola di Medea realizza questo scostamento, ponendo il cinema come macchina del desiderio e sovvertendo poli significanti codificati per liberare il desiderio dalle definizioni ufficiali e dominanti.