Il tuffo nella Senna di Jean (Dasté) ne L’Atalante (1934) è certamente la scena che più rimane impressa, la ricerca disperata del volto di Juliette (Dita Parlo), la cui apparizione diviene conferma di un profondo amore che va oltre i dissidi e le incomprensioni, è solo attraverso l’acqua che possiamo conoscere il volto della persona amata. Jean abbandonato da Juliette, sedotta dal fascino della metropoli parigina, si ricorda della confidenza che lei gli aveva fatto, e l’acqua diviene il tramite, elemento fluido e informe, attraverso il quale mettere in comunicazione il sogno con la realtà. Non un richiamo al riflesso di Narciso, portatore di un amore mortifero, la superficie dell’acqua è ora infranta dall’immersione di un corpo vivo e palpitante.

“Il poeta futuro supererà l’idea deprimente dell’irreparabile divorzio tra azione e sogno”, scrive André Breton ne I vasi comunicanti (1932), usando come metafora il principio di Blaise Pascal (un liquido versato in recipienti comunicanti di diversa forma raggiunge lo stesso livello) mette in relazione questa proprietà dell’idrostatica con la capacità di mescolare elementi inconciliabili quali la realtà psichica e la realtà materiale. Breton riporta un pensiero dello scienziato e filosofo francese che non fa altro che avvalorare la sua tesi: “Nessuno è certo, fuor che per fede, di essere sveglio o di dormire. Nel sonno, infatti, crediamo di essere desti altrettanto fermamente di quanto lo siamo (…) dimodoché – passando poi, per nostra stessa confessione, metà della vita dormendo (…) chissà se l’altra metà della vita, in cui crediamo di esser svegli, non sia se non un sonno un po’ diverso dal primo, dal quale ci destiamo quando crediamo di addormentarci?”. (André Breton, I vasi comunicanti, Lucarini, Roma, 1990)

Jean Vigo sembra far suo il sogno profetico surrealista, l’attività onirica non è portavoce di una rivelazione proveniente dal passato, e nemmeno incarna esclusivamente la realizzazione di un desiderio, ma agisce sulla realtà, secondo Pascal più illusoria di quanto si pensi, modificandone l’avvenire immediato.

Il sogno ad occhi aperti di Jean (Dasté) prende forma solo attraverso una totale immersione purificatrice che riallinea i livelli del liquido nei vasi comunicanti. Juliette appare avvolta dall’abito da sposa, la sua immagine fluttua tra le acque, una fille de l’eau non troppo distante dall’apparizione di Catherine Hessling nel lungo sogno di Jean Renoir, del quale sembra riprendere il corpo onirico che precipita dall’alto, ma la spinta idrostatica dell’acqua attutisce la caduta e le contraddizioni tra sogno e realtà si annullano dando origine a una realtà assoluta, o meglio a una surrealtà.

L’Atalante diviene l’esaltazione della forza sovversiva de l’amour fou, l’amore totale e travolgente messo a dura prova dagli ostacoli esterni, la ripetitività della vita quotidiana e la pressione delle convenzioni sociali, tutte circostanze totalmente estranee all’amore: “momenti neri in cui l’amore d’improvviso batte l’ala e si lascia cadere, senza risorse in fondo all’abisso da cui risalirà più tardi in verticale”. (André Breton, L’amour fou, Einaudi, Torino, 1974)

Tornando al sogno profetico di Jean, cortocircuito acquatico tra realtà e mondo onirico, è curioso trovare tra le illustrazioni presenti ne L’amour fou (1937) di Breton una fotografia che ritrae la sua futura moglie, anch’essa artista, Jacqueline Lamba, mentre nuota sott’acqua, in uno scatto realizzato dalla fotografa ungherese Rogi André.

La spiegazione è a prima vista semplice, in quel periodo la compagna di Breton si esibiva in un numero di music-hall all’interno di una piscina, ma la presenza di questa fotografia è accompagnata da un verso di una poesia scritta anni prima dal poeta surrealista e rivelatasi con il tempo la premonizione del futuro incontro con Jacqueline. “L’aria di nuotare”, queste sono le parole che accompagnano il ritratto in bianco e nero, una “inquadratura-acquario”, come direbbe Alain Bergala, nella quale si manifesta l’apparizione evanescente della donna amata da Breton, lo stesso elemento naturale dove già qualche anno prima l’amour fou di Jean (Vigo) si era rivelato.

Volendo ritrovare altri elementi de L’Atalante che rimandino all’universo surrealista come non soffermarsi sulla presenza della macchina da cucire che dà vita alla seduzione di Juliette da parte di père Jules, oggetto inanimato nel quale i surrealisti vedrebbero di certo un diretto riferimento alla celebre frase di Lautréamont: “Bello…come l’incontro fortuito sopra un tavolo operatorio di una macchina da cucire e un ombrello”. (André Breton, I vasi comunicanti)

 

Vigo è figlio dell’epoca in cui vive, e come tale fa suo il patrimonio culturale e visuale delle avanguardie, non secondaria è la diretta collaborazione con Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov.

“Vedere con un occhio diverso da quello abituale” sembra essere il credo di Vigo, queste parole pronunciate in occasione della proiezione di À propos de Nice (1929) si riferiscono al film di Luis Buñuel Un chien andalou (1929), regista con cui condivide l’interesse verso un “cinéma social”, nel quale rinvenire i presupposti del cinema d’avanguardia, “l’allargamento dello spazio del visibile, la messa in valore della visualità pura, ritmico-melodica o meccanica”, in contrasto con i “codici discorsivi e percettivi del cinema come duplicazione dell’esistente, e della visione del mondo della ideologia borghese”. (Michele Canosa, Il cinema delle avanguardie e Jean Vigo, in Francia anni '30. Cinema cultura storia, Marsilio, Venezia, 1982)

Per entrambi i cineasti è l’arma dello scandalo a farsi portavoce della liberazione delle pulsioni dei corpi e del desiderio. Il “gusto quasi osceno della carne”, definizione utilizzata da André Bazin per descrivere l’opera di Vigo, accomuna i due registi, una attrazione-repulsione per i corpi sezionati, sfregiati e mutilati, di chiara derivazione surrealista; come non pensare alle mani dell’amico di père Jules conservate in un barattolo di formalina, mani che Buñuel ha precedentemente sottoposto a diverse torture.