Wim Wenders e Nicholas Ray: due giganti del cinema, due colleghi e amici, due autorialità che si incontrano in un film che sfugge alle definizioni canoniche. Cos’è infatti Lampi sull’acqua – Nick’s movie?
Partito come progetto di un normale lungometraggio in cui Ray avrebbe dovuto riprendere il ruolo che interpretava nell’Amico americano, il film che i due registi intendono girare prende ben presto un’altra forma, soprattutto a causa delle drammatiche condizioni di salute in cui versa Ray, già operato due volte di cancro e a cui era stato diagnosticato un altro tumore esteso al cervello e ai polmoni. Consapevoli che per il regista statunitense questo sarebbe stato l’ultimo canto, i due decidono di trasformare il progetto in una sorta di documentario sui suoi momenti finali: Ray si offre alla macchina da presa di Wenders in tutta la sua fragilità (non ci risparmia la tosse, la magrezza, la parziale nudità di un uomo malato e spesso allettato), mentre il regista tedesco accetta di compiere un atto eticamente problematico immortalando gli ultimi giorni dell’“amico americano”.
Non è ovviamente un atto morboso; non è “cinema del dolore” nel senso deteriore del termine. Mettendosi in campo in prima persona, rendendo manifesto l’atto stesso del filmare, Wenders confessa a Nick e allo spettatore i propri dubbi, la preoccupazione degli effetti che quest’opera avrà sulla loro amicizia, la sua impressione di essere talvolta attratto dalla malattia e dalla sofferenza dell’amico, fino a esplicitare la convinzione di abusare di lui, di tradirlo. Si pone anche il dubbio di essere più preoccupato della riuscita del film che non della salute dell’amico, ma, confortato dallo stesso Ray, continua a filmare perché capisce che in questo modo può rendergli un vero omaggio. Non solo perché costruisce un ritratto dell’uomo oltre che del cineasta, ma perché così facendo gli dona la possibilità di prolungare la vita e di continuare a fare cinema. Ray resta pur sempre co-regista del film, stabilisce cosa si deve filmare e come (le sequenze simil-backstage girate dal suo assistente Tom con una videocamera Sony lo dimostrano) e i medici confermano che questo impegno sta portando miglioramenti alla sua salute e al suo spirito.
Lampi sull’acqua rappresenta dunque un dialogo sfaccettato tra due uomini di cinema, legati non solo da un’amicizia e da una precedente collaborazione, ma anche da un rapporto quasi reverenziale di Wenders verso Ray, visto anche come “padre” cinematografico: “Le mie azioni saranno definite dalle tue”, gli dice Wim. Questo aspetto ovviamente pesa notevolmente sul regista tedesco, accentuando la sua insicurezza su cosa sia bene riprendere e mostrare: se quando osserva l’amico con i propri occhi riesce comunque a trovare un po’ di speranza, lo sguardo implacabile della macchina da presa mostra sempre che il tempo sta finendo. In questo senso, Lampi sull’acqua è da leggere anche come regalo che i due uomini si stanno reciprocamente donando: Ray offre un esempio concreto di vita dedicata interamente al cinema, Wim – attraverso la realizzazione di un film che vuole sfidare la morte – consente all’autore di Gioventù bruciata la possibilità di “recuperare la propria immagine”, di stabilire un’auto-rappresentazione da lasciare come testamento. Non è un caso infatti che durante le riprese di Lampi sull’acqua Ray stia lavorando sulle immagini di We Can’t Go Home Again. Il tema della casa emerge con forza dal film, sia perché la casa di Nick ne è per forza di cose il “set” principale, sia per l’importanza data alla sequenza del ritorno a casa del personaggio interpretato da Robert Mitchum in Il temerario, oggetto di una lezione che Ray tiene ad alcuni ragazzi di un college.
Di fatto, realizzare Lampi sull’acqua è per Nicholas Ray un vero e proprio tornare a casa.