“Tu non sai le colline dove si è sparso il sangue”, con queste parole comincia Animata resistenza (di Francesco Montagner e Alberto Girotto, 2014) e prosegue “uno solo di noi si fermò a pugno chiuso, vide il cielo vuoto, chinò il capo e morì sotto il muro, tacendo. Ora è un cencio di sangue e il suo nome”, la poesia di Cesare Pavese, scritta il 9 novembre del 1945 e pubblicata nella raccolta La terra e la morte, è l’incipit ideale per presentare il lavoro/resistente di Simone Massi, uno dei più grandi maestri dell’animazione contemporanea.
Massi si definisce un animatore resistente, realizzando quella che per tanti rimane solo un’utopia, ovvero lavorare seguendo la propria vocazione, abbandonata la fabbrica di Fabriano si iscrive alla Scuola d’Arte di Urbino, l’urgenza di lasciarsi alle spalle un futuro suicida da operaio, una vita che avrebbe avuto il ritmo insostenibile della catena di montaggio, lo ha costretto a riprendere in mano gli strumenti con i quali durante l’infanzia, un po’ per gioco un po’ per necessità, era riuscito ad esprimere quell’interiorità ancora acerba che già provocava stupore. Questo stupore con gli anni è cresciuto, la scoperta di uno stile personale e inconfondibile ha rafforzato la potenza delle linee immobili tracciate sul foglio, immagini della memoria in eterno movimento divenute fotogrammi di un racconto talmente intimo da portare Massi al rifiuto dell’aiuto della tecnologia che avrebbe facilitato il lavoro snaturando il gesto dell’artista, privato della libertà di azione diretta sulla materia, uno sforzo di vitale importanza. Massi, per quanto è possibile oggigiorno, resiste alle lusinghe della tecnologia evitando l’appiattimento della sua opera, unica come lo sono i fotogrammi, tavole che se prese singolarmente provocano quello stupore iniziale a cui l’artista continua ad aspirare, e a ricordare.
Torniamo a Pavese, “un autore legato alla terra e uno scultore del tempo” del quale Massi ammira l’abilità nell’uso dei silenzi, un dono raro che l’artista ha saputo far proprio, i suoi cortometraggi si nutrono del silenzio dei cieli vuoti, lenzuoli bianchi distesi al sole, anche se il suo calore sembra mancare; un paesaggio in continuo contrasto, bianco e nero, quasi assente il colore, una chiazza rossa qua e là resiste.
Tengo la posizione (2001), film-manifesto, poco più di quattro minuti, in cui Massi afferma la propria ostinazione nel voler proseguire la strada dell’animazione, nonostante le sfide e i sacrifici che questa scelta comporta, in Italia più che mai. “Intanto io sto qui, tengo la posizione”, questo è il messaggio, lo leggiamo, scritto nero su bianco, nella lettera di un partigiano; Massi apre un pertugio tra le righe della Storia, un omaggio alla Resistenza combattuta da eroi silenziosi ai quali guardare quando le forze, ostacolate da una società ingiusta e ostile, vengono a mancare: “Ciò che c’è di buono oggi nel nostro paese viene da lontano. Qualcosa che è stato costruito dai nostri antenati e dagli ideali – più ancora che dal sangue – dei partigiani”. Ricordare per Massi è sinonimo di resistenza, paragonato al respiro dell’uomo, invisibile e necessario; “il ricordare ha un senso se si ha memoria del tutto, dei mattoni e dei vuoti, e se si riesce a salvar qualcosa fra le rovine di chi ci ha preceduto”. (Simone Massi in Nuvole e mani. Il cinema animato di Simone Massi, a cura di Fabrizio Tassi, Roma, 2014)
Ma gli ideali hanno lo stesso colore del sangue, il rosso “antico e nostalgico del Novecento, un colore che faceva sognare e dava speranza”, il silenzio del bianco e del nero viene interrotto, macchiato da un pigmento scarlatto, come il “cencio di sangue” nei versi di Pavese, la sciarpa rossa del protagonista di Tengo la posizione spicca nel paesaggio imbiancato, il giovane giace a terra privo di vita ma tiene “la posizione”, il braccio alzato, le dita rattrappite, il pugno è ancora chiuso, tutto attorno tace.
Un altro aspetto fondamentale del cinema di Massi, che affianca la profonda riconoscenza verso gli antenati, è l’attaccamento viscerale alla propria terra, le Marche, un legame sincero che emerge dai cortometraggi. In Dell’ammazzare il maiale (2011) la crudeltà di questo evento non viene mostrata, le tradizioni e le contraddizioni del mondo contadino sono raccontate attraverso le sensazioni di un bambino attonito di fronte alla violenza incomprensibile degli adulti. Nell’opera di Massi gli animali condividono il destino dell’uomo e per questo rivestono un ruolo centrale, la loro presenza è concreta come lo è l’apparizione variopinta del fagiano nel finale di Dell’ammazzare il maiale, distante da ogni allegoria “ma sempre capace di guidarci in un mondo che è insieme verità e fiaba perché umano e animale insieme”. (Paolo Mereghetti, Uomini e animali in Nuvole e Mani)
I volti e le mani dei suoi personaggi, segnati dal tempo e dalle ingiustizie sono scavati nella materia, graffiati sul foglio dal quale emergono come scolpiti su un blocco di marmo. Lo scultore, come l’autore nel cinema, “toglie tutto ciò che è superfluo”, il pensiero di Tarkovskij, “sottoscritto” da Massi innamorato del cinema del regista russo, evidenzia quanto, nel nostro caso l’animazione, sia un’incessante opera di sottrazione anche dolorosa, come lo è scavare riportando in superficie le proprie radici.