Impietoso, distaccato e raggelante: da sempre lo sguardo di Michael Haneke si dispiega tra questi poli semanticamente interscambiabili, in una limpidezza e asciuttezza formali che depredano l'immagine di ogni sua componente fittizia: per cui il cinema non è più mimesi artificiosa, ma è esso stesso realtà. Disarmante realtà, aggiungerei. Se in Amour quegli ultimi, strazianti e poi soffocati aneliti di vita sono stati il violentissimo epilogo di un dramma scandito dal ritmo flemmatico dei dialoghi o dall'uso così eloquente del campo-controcampo, l'operazione di Happy End risulta leggermente diversa.

Siamo a Calais ed Haneke segue le angosciose vicissitudini di una famiglia alto-borghese, tra suicidi e incidenti e un perenne senso di dissoluzione imminente che congloba tutta la vicenda, vissuta principalmente dalla prospettiva di una bambina e del membro più anziano della famiglia, un Jean-Louis Trintignant d'eccezione, non più carnefice ma vittima. A causa della morte della madre, Eve\Fantine Harduin dovrà riallacciare i rapporti con il padre\Mathieu Kassovitz, figura paterna sono in apparenza, sostanzialmente vuoto e dedito al continuo soddisfacimento dei propri bisogni sessuali, il tutto velato da una patina di benevolenza e sorrisi di convenienza. E la lucidità con cui questi meccanismi vengono gradualmente disvelati è la stessa con cui Haneke ci fa vivere gli esigui picchi drammatici della storia, con quell'acuto distacco che accompagna lo spettatore nella percezione del disagio dei protagonisti, dal preludio al momento in cui Eve visita la madre in ospedale: un freddissimo campo totale trasmette un diverso tipo di suggestione, coerente con il bisogno di tenere a distanza l'umano mutilato, tema totalizzante fin dall'afasia sentimentale della sua Pianista.

Il cineasta austriaco gioca con le antinomie e gli ossimori fin dal titolo del film, chiarissima metafora di un happy end offuscato dalla consuetudine delle intese stipulate sottovoce. Il suo racconto potrebbe leggersi anche come un lamento d'amore, senza amore, strangolato sul nascere alla stessa maniera di Andrey Zvyagintsev nel suo Loveless: in questo scenario di apocalissi interiori, ogni cosa conserva un'aura di sinistra indistinzione: dai rapporti familiari e sociali a quelli sessuali, c'è l'incomunicabilità e lo scarto, e il senso di sradicamento si fa sempre più pervasivo. E l'amore, per entrambi, non può che essere un filtro: lo stesso con cui la protagonista di Loveless guarda il piccolo Alyosha, lo stesso con cui Eve contempla la vita e la morte nella memorabile sequenza finale, dove lei, precocemente disillusa, entra a contatto con Mr. Laurent. Due figure agli antipodi della vita, ma in qualche modo speculari che rappresentano "gli stati più profondi che è dato vivere" e, non a caso, è attraverso di loro che Haneke sceglie di veicolare il suo messaggio.