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“Funny Games” e l’ossessione del dolore

Funny Games, nonostante la televisione a tubo catodico e il telefono cellulare con antenna esterna, risulta estremamente contemporaneo nell’evidenziare il distacco emotivo che lo spettatore, saturo di crudeltà, prova nei confronti della sofferenza altrui che sembra, poiché trasmessa mediaticamente. È forse il caso di riprendere la discussione sul confine tra realtà e finzione che Paul e Peter intrattengono sul finale dell’opera di Haneke?

Le apocalissi interiori di “Happy End”

Impietoso, distaccato e raggelante: da sempre lo sguardo di Michael Haneke si dispiega tra questi poli semanticamente interscambiabili, in una limpidezza e asciuttezza formali che depredano l’immagine di ogni sua componente fittizia: per cui il cinema non è più mimesi artificiosa, ma è esso stesso realtà. Disarmante realtà. Se in Amour quegli ultimi, strazianti e poi soffocati aneliti di vita sono stati il violentissimo epilogo di un dramma scandito dal ritmo flemmatico dei dialoghi o dall’uso così eloquente del campo-controcampo, l’operazione di Happy End risulta leggermente diversa.