Se Un affare di famiglia trovava il modo di omaggiare non solo la tradizione domestica giapponese di Ozu, ma anche il cinema euro-statunitense di Wim Wenders, proponendo in una delle scene del suo insospettabile sviluppo qualcosa di molto simile alla sequenza nel peep-show di Paris, Texas fra Kinski e Stanton, Le buone stelle, nuovo lavoro di Hirokazu Kore'eda, prosegue in quella composita scia cinefila.

Comincia con un omaggio a Parasite e alla sua pioggia torrenziale notturna, che picchia su emarginati e saliscendi tipici delle strade coreane, questa volta di Busan, e prosegue come un road-movie le cui musiche escono direttamente da Nowhere Special di Uberto Pasolini, a sua volta sentimentalmente rivolto a Un affare di famiglia. Infine, in un connubio fra citazione visiva e acustica, fa irrompere suggestivamente in scena anche una canzone di Magnolia, che Soo-jin, ispettrice della ‘Donne e minori’ di Busan, riconosce da un finestrino aperto della sua auto provenire da un mini-market, sotto quella stessa pioggia battente da cui si riparava nella propria, di auto, Julianne Moore intonandola poco prima di tentare il suicidio nel film di P.T. Anderson.

Come in Nowhere Special, anche in Le buone stelle c’è un bambino, qui di pochi mesi, a cui trovare una famiglia, acquirente ancor prima che adottiva, con un genitore, qui la madre, propenso a non fargli sapere quali reietti fossero le persone che lo hanno messo al mondo. E qui c’è anche un abbandono, quello della giovane prostituta So-young, che lascia il suo piccolo fuori da una chiesa-orfanotrofio di Busan, ignara del fatto che due operosi volontari sottraggono da tempo alcuni dei bambini abbandonati per venderli a coppie facoltose che se ne prendano cura come famiglia comanda, invece di lasciarli al più incerto destino da orfanotrofio. Sono Sang-hyeon, uomo dall’anima aperta, che vivacchia di stenti nella sua lavanderia in cui cuce, stira, stende i panni e coccola amorevole i piccoli che rapisce, e Dong-soo, aiutante più giovane, complice, amico, fratello e volendo anche un po’ figlio, abbandonato in fasce in orfanotrofio da una mamma mai più tornata a prenderlo.  

La loro è solo una delle tante variegate relazioni umane - potenziali, effettive, desiderate, respinte - che il film intesse come variazione sul tema alla domanda deflagrante di Un affare di famiglia, che cominciava dove Le buone stelle finisce. Se nel suo capolavoro Kore'eda obbligava lo spettatore a confrontarsi con i propri legami di sangue misto con l’arma dell’inganno empatico, nel suo nuovo film mostra le infinite possibilità dell’affetto e dell’accudimento reciproci, a partire dalle inaspettate circostanze che possono generarli.

La sceneggiatura spiega probabilmente troppo e avrebbe giovato il taglio a un paio di sotto-trame, che appesantiscono il nucleo tematico più interessante del film, cioè quello in cui il regista, anche sceneggiatore e montatore della pellicola, indaga i ruoli parentali reali e putativi mostrandoli in divenire, non fissi, alimentati su iniziativa di uno senza che l’altro lo sappia, oppure richiesti esplicitamente in modo tenero, come per l’orfano Hae-jin.

Meno riuscito che in Un affare di famiglia è anche l’intreccio fra condizione economica disagiata e dimensioni umane del dare e del ricevere, ma di Le buone stelle ci si porta comunque a casa molto. L’estremo incanto della sequenza sulla ruota panoramica, capace di fermare il tempo; quello della scena, già citata, su musica di Magnolia, che il tempo lo fa scandire da un tergicristalli, e il concetto tipicamente orientale di gratitudine per l’essere venuti al mondo, espressa non verso qualche divinità, ma da un personaggio all’altro e ritorno.