Fin dai suoi primi film Mamoulian ha messo al centro della narrazione la figura femminile. In alcuni film è il punto di vista maschile a definire la posizione della donna. Una figura maschile divisa tra “l'arrapato e il santo” (“the horny and the wholy”) come l'ha definito Ehsan Khoshbakht riferendosi al Dr. Jekyll. Altre volte però è la soggettività femminile a domandare una propria autonomia e il riconoscimento di uno spettro emotivo più ampio. Non più quindi donne angelo che devono ispirare ed elevare uomini scissi tra materia e spirito, piuttosto donne con una loro agency e forza combattiva che cercano una realizzazione anche attraverso la sfera sessuale.

Prodotto sull'onda del successo di Piccolo Cesare, Le vie della città devia immediatamente dalle figure retoriche del gangster anche attraverso la pulsione emotiva di Sylvia Sidney che trasforma il film in un melodramma. Fin dalle prime immagini la vediamo soggetto attivo dell'azione: guida un auto, spara con una pistola (seppur giocattolo). Una donna imprigionata “nell'underworld” che sogna una realtà altra, deformata come gli specchi con cui gioca con il suo compagno.

Un imprigionamento espresso da Mamoulian attraverso la sineddoche visiva del passaggio dal mare impetuoso alla gabbia di un uccello. L'autonomia del suo pensiero viene valorizzata in una scena in cui il voice-over, ennesima invenzione di Mamoulian, esprime il suo dramma interiore. La liberazione finale e la fuga di coppia ripete la dialettica di Applause tra autonomia del soggetto e desiderio di comunione ed estensione delle proprie libertà.

Se in Vie della città la simbolizzazione dell'imprigionamento delle donne passa anche per la presenza di statue raffiguranti animali, nel Cantico dei Cantici è Marlene Dietrich, una diva da affermare, a farsi statua. Simbolo di spirito liberatore, la statua finisce per rendere il corpo di Dietrich un oggetto inerte. La diva sfida quindi la rappresentazione in un gioco performativo con lo spettatore e con la censura: Marlene si spoglia per fare in modo che l'artista la imprigioni nella statua.

Lo spogliarello è visibile allo spettatore finché non giunge alle parti intime censurate da un immediato passaggio di montaggio alla statua. In una scena successiva lo spogliarello è presentato attraverso la sua ombra. In questo modo Mamoulian evidenzia la potenzialità immaginifica del corpo femminile rispetto alla materia inerte. La stessa Dietrich giungerà sempre più a una maggiore consapevolezza del proprio corpo finendo per fare a pezzi la statua.

Nella Regina Cristina a essere monumentale è tanto il castello, ennesimo spazio tra il sacro e l'inibitorio, quanto il corpo divistico. Greta Garbo era infatti al tempo la diva più chiacchierata e ottenne un potere senza precedenti per produrre il film come voleva lei. A essere posta in una posizione pensata esclusivamente come maschile non è solo il personaggio interpretato ma la stessa Garbo che deve quindi negoziare la sua posizione dominante con lo spettatore.

Un imponente ritratto di re guerriero sembra minacciarla continuamente, ma la sua regina pacifista abdica al potere simbolico in nome di un'emancipazione sessuale e umana. La sua missione non è conquistare terre straniere ma la complessità dell'animo umano che giunge a essere monumentalizzata attraverso lo splendido movimento finale di macchina che si chiude sul primissimo piano del suo volto.