Sono solo immagini. Non nel senso che sono semplicemente immagini – ovvero che c’è un mondo là fuori che esiste indipendentemente da esse – ma nel senso che sono soprattutto immagini. Se il cinema si è fatto teoria, in questi mesi, lo ha fatto seguendo questa idea, facendo emergere lo statuto dell’immagine non come qualcosa che vale la pena rincorrere nonostante un contesto sfavorevole o addirittura irrappresentabile (come le immagini malgrado tutto di Didi-Huberman), ma immagini che si producono e rincorrono indipendentemente dal contesto, addirittura prima di relazionarsi ad esso. Immagini sopra tutto, come statuto dell’esistenza stessa di chi le produce, come segno di vita.

Civil War di Alex Garland, per esempio, procede proprio verso questo presupposto. Come mai un film su un’ipotetica guerra civile negli Stati Uniti non restituisce un’idea esaustiva delle fazioni, dei motivi e delle derive politiche che l’hanno scatenata? Come mai un film sui reporter di guerra si pone pochissime volte la questione specifica delle immagini di guerra? Forse perché abita la cornice di questi fatti, ne vive la teoria. Infatti, non si pone come un film sugli Stati Uniti, ma sulla guerra intestina come condizione e possibilità, sulla crisi dell’unità nazionale come fatto e orizzonte contemporaneo.

Allora non è neanche un film sulle immagini di guerra in sé, ma sulle immagini in generale. Immagini sopra tutto. La sequenza dell’assalto alla Casa Bianca – con i fotoreporter in prima linea insieme ai militari e i loro scatti che anticipano, coesistono e seguono gli spari – è esplicativa. Matteo Marelli su Film Tv scrive che potremmo pensare a Civil War come a un testo che compone “un’ideale storia della linea di mira”, della “geometrizzazione dello sguardo” che parte dall’occhio e raggiunge il bersaglio attraverso il mirino. Una storia di traiettorie più che di obiettivi.

Potremmo mettere sullo stesso piano l’apparecchio e l’apparato, come legame interrogabile, come fa un altro film che, sempre con piglio teorico, si chiede: come impiegare tanto potenziale? Axel Danielson e Maximilien van Aertryck, sotto l’ala di Ruben Ostlund, in Fantastic Machine fanno critica del visuale con il visuale, realizzando un videosaggio che vive di suggestioni da compendio di teoria (c’è un po' di psicologia, sociologia, neuroscienza…), ma sostenuto da un punto di vista singolare che parte dalla camera oscura fino ad arrivare alle immagini di Capitol Hill.

Siamo quello che vediamo e come lo vediamo, siamo quello che inquadriamo e come lo inquadriamo. L’esempio di un’inquadratura aerea che diventa il primo piano di un maiale permette al film di prendere una posizione chiara, non del tutto apocalittica quanto più autoironica nella sua consapevolezza: persino l’immagine del mondo appartiene solo a un mondo di immagini.

Immersi in questo ecosistema (del tutto post-mediale), qualcuno potrebbe invece sentire la necessità di fare un lavoro contrario: circoscrivere un campo specifico. È quello che fa Lubna Playoust in Room 999 con il cinema. Parte tutto dal precedente Chambre 666 di Wim Wenders in cui, durante il festival di Cannes, venivano invitati una serie di registi in una camera d’albergo, davanti a una cinepresa, messi di fianco a un televisore acceso a rispondere tutti alla stessa domanda: il cinema è un linguaggio che sta per perdersi, un'arte che sta per morire? Era il 1982. Quarant’anni dopo, l’operazione pretende degli aggiornamenti: la stanza è cambiata, la pellicola è diventata digitale e vicino ai registi interpellati, nell’inquadratura, non c’è più un televisore via cavo, ma uno schermo che trasmette homepage di piattaforme streaming.

Malgrado i cambiamenti tecnologici e situazionali, quello più evidente però è proprio l’approccio alla domanda degli intervistati. Se quarant’anni prima veniva a galla il fatto che interrogarsi sulla morte del cinema aveva sempre significato interrogarsi sul suo futuro, oggi sembra che la domanda stimoli maggiori riflessioni sul suo presente.

Il cinema non muore, ma dov’è? Che cos’è? Di cosa parliamo quando parliamo di cinema a discapito del resto? È un altro tema della teoria questo, quello che Casetti chiamerebbe della rilocazione. Per gli intervistati è un’industria da guardare con sospetto o un mercato da rendere più accessibile, un linguaggio immortale o una pratica da preservare, un’espressione artistica libera o uno specifico immodificabile. La vera domanda immortale è forse questa, che il cinema non muore possiamo darlo per scontato.

Resta da chiederci che cosa intendiamo quando parliamo di cinema o quando parliamo di immagini? Il cinema, quando si fa teoria, qualche suggerimento ce lo dà. La teoria, quando si fa cinema, altrettanto. Basta osservare… malgrado tutte le immagini, soprattutto le immagini.