La recente svolta autobiografico-cinefila del cinema autoriale è fatta anche di "fughe d'autore". Un esempio può essere la fuga dal set del regista di Irma Vep (2022), il remake seriale diretto sempre da Olivier Assayas. Una fuga accompagnata dal prezioso materiale registrato, tesoro da conservare intatto dalle mani dei produttori, prodotto di intuizione che solo il suo creatore può sublimare. Anche nell'ultimo film di Gondry vediamo una simile fuga.

Presentato in anteprima a Cannes 2023 e poi al Biografilm 2023, Il libro delle soluzioni ritorna su un breve periodo della vita di Michel, quello della difficile produzione di Mood Indigo (2013), caratterizzato tanto da un exploit creativo quanto da un atteggiamento nevrotico che comportò svariati problemi alla troupe nell'incuranza del regista.

Se in Assayas la fuga ha la forma del ritiro spirituale legata a una pratica produttiva che si conferisce il compito di adunare i fantasmi della propria psiche e portare a compimento nell'opera i suoi traumatici conflitti, in Gondry tale sublimazione è al tempo stesso chiamata e rifiutata nel suo continuo differimento. Il regista, interpretato da Pierre Niney, fugge con il materiale del suo film non solo perché non accetta le ingerenze degli studios (in particolare del produttore, suo migliore amico) ma perché non accetta di riguardare il suo film, non può concepire il suo compimento, la sua forma chiusa.

Fuggendo cerca di salvare il prodotto delle sue intuizioni ma si dà anche la libertà di poter riempire l'opera di nuove intuizioni. Come Joel in Se mi lasci ti cancello, anche Marc, l'alter-ego del regista, fugge verso una casa conosciuta per proteggersi dalla cancellazione della memoria, delle migliaia di idee che affollano la sua mente.

La casa conosciuta è qui quella dell'adorata zia Suzette, scomparsa nel 2021, a cui Michel aveva già dedicato il documentario La spina nel cuore (2009) e qui fatta rivivere sotto il nome di Denise da Françoise Lebrun. È l'affetto che prova verso la saggia zia che mantiene ancorato il regista a qualche principio di realtà, che lo porta ancora a considerare l'esistenza di qualcosa o qualcuno fuori dalla propria mente.

D'altra parte tutti i film di Gondry sono costellati da una serie di figure che attorniano il protagonista in fuga e che cercano di fargli comprendere i limiti del suo eccessivo attaccamento alla memoria. Se vi è una lezione nel cinema di Gondry è quella di rimanere sempre scettici delle proprie convinzioni, anche della fedeltà assoluta nella memoria.

Non è solo la zia a porre un freno al genio, ma anche la voce narrante del protagonista che con ironia riflette a distanza su quel periodo. È un dispositivo narrativo che conferisce al film un piglio letterario, inedito nel cinema di Gondry, che rafforza la sensazione di un doppio piano di senso che continuamente si scontra e incontra nel film: il piano della mente del regista, della sua travolgente fantasia, e il piano "spettatoriale" che ironizza e riporta sul piano della realtà le velleità di fuga del genio. Al genio vanno posti dei limiti, ma esiste ancora la necessità di lasciargli lo spazio di inventare liberamente.

Così il film gioca tra questi due piani, facendo passare intuizioni dell'autore come assurde per poi realizzarle per il godimento dello spettatore. Tra le tante invenzioni divertentissime si può citare la sequenza dell'orchestra diretta dal regista. Solo a partire dal corpo dell'attore-marionetta che mima la partitura si può inventare dal nulla una melodia che diverrà la colonna sonora dell'opera.

Che cosa può oggi il genio romantico? Forse non rivelarci una verità assoluta, ma scavare nella propria memoria per immaginare un mondo in continua espansione. Una fuga pericolosa ma necessaria, se si vuole continuare a sognare.