Le mura di Bergamo separano la parte alta dalla parte bassa della città. Separando, definiscono una comunità di persone che vive in uno stesso territorio. Allo stesso tempo però evidenziano una frattura entro il tessuto cittadino e una distanza tra i diversi cittadini di Bergamo. Messe in relazione con un condominio qualunque della Bergamo sotto assedio pandemico nel marzo 2020 quella frattura comunitaria si estende a ogni abitazione.

Costretti a vivere isolati, i bergamaschi vivono una condizione di assoluta frammentazione e individualizzazione del vissuto che dà il la a una profonda interiorizzazione del senso di colpa. Eppure è da queste mura, in un parco in cui si riunisce qualche volontario, che nasce il desiderio di superare questa condizione di frammentazione ed elaborare collettivamente il lutto.

Il nuovo documentario di Stefano Savona Le mura di Bergamo ritorna alle immagini agghiaccianti dei camion militari che trasportano le bare per riaprire il dibattito sull'elaborazione storica di una tragedia. Come già fu con Tahrir, Savona si precipita a filmare lo svolgimento di un evento epocale, questa volta in compagnia dei suoi studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia. Nella prima mezz'ora il film si concentra sulle logiche di guerra che devono applicare gli ospedali per sostenere il carico di richieste di ospedalizzazione in pieno picco.

Ma come già ne La strada dei Samouni la logica puramente operazionale viene sovvertita da una prospettiva singolare, in questo caso il punto di vista di una giovane infermiera addetta al triage, costretta a prendere la delicata decisione sull'ospedalizzazione o meno del malato solo a partire da poche informazioni. La tragedia umana di una decisione sovrana sulla vita rivela l'intento autoriale di ridare umanità a pratiche emergenziali.

La logica di guerra di quel periodo evidenzia un altro muro che non è solo quello del limite della rappresentazione, ma anche del limite della comprensione spettatoriale di un dramma non ancora storicizzato e che dovrebbe essere sentito come vicino. Un muro si edifica nel film stesso separando questo tumultuoso evento e le sue conseguenze, la memoria dell'accaduto e l'elaborazione della sua caratteristica epocale.

La dimensione collettiva del progetto emerge proprio qua, gli occhi delle camere si riversano per la città alla caccia di prospettive e racconti, i punti di vista si moltiplicano. Dalle facciate delle case passiamo ai loro interni attraverso l'operato di volontari che cercano di riattivare la socialità di persone costrette all'isolamento. Il desiderio dei volontari di un'elaborazione collettiva dell'accaduto si infrange però con la frammentazione del vissuto emozionale dei cittadini viste le così diverse modalità con cui ognuno ha subito l'impatto della pandemia.

Un ulteriore muro, infine, separa i viventi dai morti. Un muro che appare troppo imponente da essere superato. Ma è proprio da questo punto di radicale separazione, ci dice il film, che nasce la necessità dell'immaginazione. Se qualcosa si può ancora fare per tenere in vita i morti è infatti grazie alla memoria. Savona celebra il vissuto di un'intera generazione scomparsa attraverso l'uso di vecchi filmini amatoriali. Se vi sono mura che ci separano si può sempre immaginare nuove modalità per tenerci uniti. Una bambina gioca a nascondersi in un labirinto di bare, che sia la finzione ciò che può unire?