Immaginate di avere di fronte a voi un foglio con su disegnato una ruota a otto raggi ed avente per fulcro un altro cerchio più piccolo. Ecco, questa è la rappresentazione del mondo che abitiamo secondo un'antica leggenda nepalese. Il centro è il Sumeru, la montagna più alta, mentre gli spicchi sono gli otto mari a loro volta separati da otto montagne. 

La domanda che sorge è: chi impara di più, colui che fa il giro delle otto montagne o colui che arriva alla vetta del Sumeru? Un quesito che diviene primario e allo stesso tempo esplicativo del modo di vivere dei protagonisti di Le otto montagne. Il film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch - vincitore del Premio della Giuria a Cannes 2022 - racconta di due vite che, come due sentieri di montagna che portano alla stessa cima, si scontrano, intrecciano, divergono per poi ritrovarsi ancora molteplici volte. 

Pietro (Luca Marinelli) e Bruno (Alessandro Borghi) divengono amici nell’infanzia, tra i sentieri, i torrenti, i prati e i ruderi abbandonati di Grana. Ma se per il primo il paese in alta quota è solo una dimora estiva, per il secondo quella montagna è casa sua. Unicamente la stagione della nostalgia, il freddo inverno che cala impietoso ogni anno, riesce a dividere i due, ma con il ritorno del caldo e dello sciogliersi delle nevi si può rinnovare il loro dolce appuntamento. D'altronde ad ogni stagione di leggerezza ne consegue una di gravità. Con il passare del tempo e scelte di vita differenti, la loro amicizia sembra congelarsi come fosse sottostante ad un ghiacciaio. Solo anni dopo, con l'età adulta, Pietro torna a Grana per ritrovare se stesso e affrontare i fantasmi del proprio passato. 

La storia è tratta dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti - vincitore del Premio Strega nel 2017 - ed i due cineasti riescono a coglierne lo spirito, non stravolgendo il contenuto, ma riportandolo per immagini sul grande schermo. Quello che ne esce è un'esperienza cinematografica totalizzante ed ammaliante fatta di dettagli, silenzi e dolcezza. Un'amicizia in perenne bilico tra l'amore e la fratellanza che assume le fattezze di un vero e proprio luogo dove affondare le radici e dove nemmeno l'intercorrere del tempo riesce ad intaccarne la purezza. Due personaggi, quelli di Pietro e Bruno, che vengono presi in esame non solo in relazione tra loro, bensì in relazione anche alla figura paterna.

Van Groeningen e Vandermeersch avevano già dimostrato con Alabama Monroe tutta la sensibilità e delicatezza con le quali riescono a parlare di rapporti umani e d'amore; ma qui il lavoro che fanno è ancora più acuto. Non servono troppe parole o sperimentazioni formali, perché ogni singolo dramma, sentimento, pensiero in Le otto montagne si respira; ogni frame penetra dentro lo spettatore e si lascia vivere. Basta un ansito in una scalata, la fronte aggrottata di Borghi o lo sguardo malinconico di Marinelli. È un film-viaggio: verso la presa di coscienza di sé, dei propri sentimenti, delle scelte intraprese e sulle fragilità emotive. Del resto, scalare una montagna porta inevitabilmente a riflettere sul proprio io. 

E se Pietro decide di seguire la strada della scrittura, scoprire e conoscere il mondo senza una fissa dimora; Bruno sembra avere come sua unica certezza il Grenon, in fondo quella montagna non gli ha mai fatto male. Ed è lei che diviene protagonista indiscussa, una presenza costante, percepita anche quando non è mostrata; che sia quella della Val d'Aosta, del Nepal o l'entità grigia che si presta a sfondo di Torino. Tutto passa dai suoi luoghi, dalla natura che la compone: boschi, torrenti, alberi o semplicemente pietre. La cima si fa mezzo attraverso la quale si spiegano le peculiarità caratteriali delle persone che la vivono: "Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene." E questa potenza che emana è esaltata dalla scelta stilistica di ritrarre tutto in 4:3, cosicché tutta la sua maestosità e verticalità dirompa in maniera senza eguali. 

La fotografia di Ruben Impens ne rispetta i colori e i luoghi, facendoli risplendere nella luce o celandoli nell'ombra. I corpi degli attori sembrano prendere parte di questo universo incontaminato e forse fin troppo grande da poter racchiudere in un'immagine. Ed è così che molto spesso nel corso della diegesi ci si imbatte in piccoli quadri dove la presenza umana si staglia contro la vetta e la cornice naturale diviene una porta o una finestra di qualche baita.  Il tutto è punteggiato dalla musica lieve di Daniel Norgren che è in grado di esaltare la bellezza primordiale che i due registi riescono a catturare.

Certo, non si può non dare il merito della riuscita di questa opera alla sbalorditiva performance di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Dopo sette anni da Non essere cattivo si ritrovano nuovamente a condividere il set e lo fanno con un’intensità e una sintonia eccezionale. Si spogliano completamente delle loro persone per dar vita a Pietro e Bruno. Lavorano sull’aspetto (più rude e imponente per il montanaro Bruno e più teso e leggero per il solitario Pietro) e sulle cadenze dialettali. Ne fuoriescono due personaggi diametralmente opposti che trovano nel loro legame un incastro perfetto, ma soprattutto sono figure reali ed autentiche; dosate e mai esasperate. Plasmano una relazione fatta di silenzi, di sguardi e gesti, ove i momenti condivisi sono soffici come un pugno di neve appena caduta e allo stesso tempo duri come i macigni di una vetta. 

Le otto montagne è un film di rara bellezza, che trova la sua forza negli spazi vuoti, nella quiete e nei sussurri; che scorre lento come un fiume e potente come una valanga capace di travolgerti al suo interno. E per quanto esso sia un racconto personale, a fine visione ci si ritrova a conoscere anche un po’ di più se stessi: le proprie debolezze e i propri affetti.