La seppur breve (finora) filmografia di Vincenzo Alfieri come regista sembra avere una connotazione ben precisa: ogni suo film precipita sempre più nei territori del cinema nero, del dark, del nichilismo e del Male, inteso nella sua forma più immanente. Dopo aver esordito con la black comedy I peggiori, Alfieri ha diretto l’ottimo e sorprendente Gli uomini d’oro, un noir a mo’ di heist movie che usa a contrasto i volti solitamente comici di Fabio De Luigi, Edoardo Leo e Giampaolo Morelli per ribaltare le carte e sfociare in un film cattivo e pessimista.
Ma non abbiamo ancora visto nulla rispetto al nuovo film del regista, forse ancora più bello del precedente, cioè Ai confini del male (2021): un film Sky Original, dunque assolutamente non garanzia di qualità, trattandosi di un calderone distributivo dove ci passa un po’ di tutto, da film notevoli come questo (ci sono i Lucisano in produzione) alle peggiori nefandezze. Alfieri però si guadagna la fiducia sul campo: fa centro ancora una volta, e ci regala una perla nerissima, un thriller che scruta nel cuore di tenebra dell’uomo e guarda in faccia l’orrore come il Colonnello Kurtz di Apocalypse Now, confermando il regista come uno tra i più significativi talenti del nuovo cinema italiano.
Tratto dal romanzo Il confine di Giorgio Glaviano, Ai confini del male è scritto e sceneggiato dallo stesso autore insieme ad Alfieri e Fabrizio Bettelli, ed è ambientato nell’immaginario paesino di Velianova – un sobborgo boschivo e lacustre di un’imprecisata regione italiana – dove due ragazzi, Luca e Adele, scompaiono dopo un rave-party. È chiamato a indagare sul caso l’integerrimo capitano dei carabinieri Giorgio Rio (Massimo Popolizio), che è anche il padre di Luca, mentre l’opinione pubblica – fomentata dai giornalisti – torna a parlare del cosiddetto “Mostro di Velianova”: un misterioso assassino, su cui Rio aveva indagato invano, che dieci anni prima torturava e uccideva giovani spacciatori, filmando tutto e mandando le videocassette ai carabinieri – un serial killer che non è mai stato trovato.
Presto si unisce alle indagini anche il tenente dei carabinieri Fabio Meda (Edoardo Pesce), detto “cane pazzo”, tormentato dalla perdita della famiglia, sesso-dipendente e violento: il quale viene ricattato da un’ex prostituta affinché trovi la figlia, scomparsa a sua volta durante la stessa notte del rave, ma alla quale nessuno sembra interessarsi. Rio e Meda, tanto differenti nello stile di vita e nel modus operandi, dopo un’iniziale diffidenza iniziano a indagare insieme: seguendo gli indizi e le indicazioni di un giornalista, cercano i collegamenti con gli omicidi di dieci anni prima e passano in rassegna varie piste, dalla setta satanica al giustiziere solitario, fino all’ambiguo conte Bazzini – organizzatore di festini a base di droga e sesso sadomaso – per poi scoprire alcune sconcertanti verità.
C’è chi ha definito Ai confini del male un po’ come il True Detective italiano, ma detto così brutalmente il paragone è ingiusto, se non lo si inquadra nei parametri corretti – e non si tratta di stabilire meriti o demeriti, quanto di definire la giusta realtà delle cose. Sarebbe un po’ come definire la trilogia Smetto quando voglio di Sydney Sibilia la versione italiana di Breaking Bad: tutte etichette che vanno strette ai nostri film come il mitologico Letto di Procuste.
Per rimanere sul film di Alfieri, sicuramente ci sono alcune regole narrative basilari di ispirazione internazionale (che sono poi quelle di molti altri thriller): il serial killer, la detection, i metodi di indagine, lo scontro fra due detective dal carattere opposto (potremmo citare anche Seven), tutte declinate però in ambientazioni e in contesti squisitamente italiani (impossibile non pensare al Mostro di Firenze e ad altri numerosi fatti di cronaca nera), così come sono tipici del giallo italiano lo stile, la narrazione e la caratterizzazione dei personaggi. Alfieri prosegue in un certo senso quello che aveva iniziato con Gli uomini d’oro, cioè trasferire modelli internazionali in una dimensione prettamente italiana, e riesce a farlo con sicurezza e fluidità, tanto che la duplice dimensione non stona, anzi risulta un valore aggiunto, indicando una strada che deve essere battuta.
La regia di Alfieri non sta a cincischiare, e ci immerge subito nelle immagini allucinate del rave-party, fra musiche ipnotiche e luci lisergiche degne di Gaspar Noè, lingue che si toccano, una croce fiammeggiante, per poi portarci in una situazione horror in stile Saw e Hostel: i ragazzi prigionieri, le camere di tortura, un inquietante figuro nerovestito e incappucciato che vaga nella cripta, immagini orrorifiche che torneranno più volte nel corso della diegesi, insieme a una vittima distesa sul tavolo autoptico.
Ai confini del male sa osare, non c’è dubbio, e già questo è un pregio nello zoppicante (ma sempre vivo) cinema di genere italiano contemporaneo. Eppure non ci espone a una violenza gratuita, non è un dozzinale torture-porn, ma un thriller con tutto il rigore e i crismi del genere, a metà fra il giallo e il nero: i protagonisti sono tratteggiati in modo mai scontato, hanno sempre un carattere di originalità, dai due carabinieri al giornalista napoletano, dall’ex prostituta straniera al perverso conte Bazzini (protagonista di un festino sadomaso in stile Eyes Wide Shut), fino agli spacciatori e all’ex poliziotto alcolizzato, tutti personaggi da film noir che starebbero bene in un romanzo di Massimo Carlotto (vedasi la serie-tv L’Alligatore, uno dei migliori prodotti televisivi degli ultimi anni).
La storia ci fa affezionare ai due protagonisti, mescolando le indagini con spaccati della loro vita privata: da una parte Massimo Popolizio, severo e odioso come sempre, integerrimo e impassibile (un altro volto da commedia usato a contrasto), padre di famiglia e devoto all’Arma, vestito sempre in divisa; dall’altra, Edoardo Pesce, il “cane pazzo” sempre in borghese e dal volto duro (lo ricordiamo in particolare come l’aguzzino, e poi la vittima, del Canaro in Dogman di Matteo Garrone), disilluso e segnato dal trauma dell’incidente in cui morirono la moglie e il figlio, che talvolta gli compaiono come allucinazioni, un uomo dai metodi violenti e abituale frequentatore di prostitute (notiamo un paio di scene di sesso abbastanza spinte per la media del cinema italiano contemporaneo).
Ai confini del male si svolge in un borgo quasi sospeso nel tempo, non solo privo di connotazioni geografiche ma che è anche una sorta di limbo fuori dal mondo: nessun centro abitato, solo alcune case, un bosco, un lago, rovine abbandonate foriere di chissà quali misteri, il capannone dove si è svolto il rave, e una cripta sotterranea dove pare che si svolgessero riti satanici. La sceneggiatura si sposta (e ci sposta) continuamente attraverso varie ipotesi, condotte attraverso le rigorose indagini dei due protagonisti: chi è il Mostro di Velianova? Perché uccideva ed è tornato a uccidere dopo dieci anni? Un satanista? O un giustiziere, visto che le vittime erano spacciatori?
La storia si dipana attraverso una rete intricata di personaggi e situazioni, in un mondo nerissimo dove nessuno è innocente, tutti hanno dei segreti da nascondere, e dove il Male e il mistero impregnano tutto, in un susseguirsi di colpi di scena che sapranno stupire anche gli spettatori più navigati: invece che True Detective, sarebbe forse più giusto citare Twin Peaks di David Lynch, a cui Vincenzo Alfieri sembra ispirarsi, insieme a fatti di cronaca nera come il Mostro di Firenze. Il microcosmo di Velianova è intriso di nichilismo fino all’osso, un nichilismo che si esplica in atti di violenza e perversione – le reiterate inquadrature sui ragazzi prigionieri, con Luca che viene drogato e marchiato a fuoco su un braccio, ma anche le esplosioni rabbiose di Meda e i festini del conte – e un Male (definito come “necessario” dal giornalista) sempre in bilico fra la dimensione immanente e quella esoterica.
Una detection che si fa indagine psicologica degli aspetti più neri e macabri dell’essere umano, e che è trasposta visivamente attraverso una fotografia perennemente grigia, cupa, plumbea, e da una colonna sonora fatta di musiche opprimenti. Alfieri confeziona un thriller di spessore, che fin dal titolo pone una domanda a cui non si può rispondere: fino dove possono giungere i confini del Male?