Il cinema di Charlie Chaplin si pone ontologicamente a un punto di confluenza tra il comico e il tragico, tra le risate e le lacrime, tra la farsa della slapstick comedy e la tristezza del melodramma, due facce in grado di scivolare l’una nell’altra senza soluzione di continuità. E se c’è un film che forse più di tutti riassume quest’ambivalenza, esso è Luci della città (1931): una delle opere più conosciute e più importanti nell’evoluzione della sua poetica, un film che segna la matura e definitiva elegia del clown triste, quella figura che avevamo conosciuto fin da Il monello e Il circo e che tornerà in Luci della ribalta, ispirando poi numerosi registi negli anni a venire, Federico Fellini in primis.

Con City Lights, Chaplin si confronta per la prima volta con gli anni Trenta, un’epoca in cui il sonoro prendeva sempre più piede: il regista persevera con il cinema muto in una sfida personale e molto coraggiosa, introducendo al contempo alcuni accorgimenti che fanno da trait d’union col nuovo corso – non ci sono dialoghi, ma la musica acquista un’importanza preponderante e sono introdotti vari effetti sonori. Il nostro è un film di transizione anche in un altro senso, poiché Chaplin fa incontrare armoniosamente le gag e la fisicità della slapstick comedy con il dramma sociale, un genere già contenuto in nuce in film precedenti come La febbre dell’oro e che conoscerà la maturità in futuri capolavori come Tempi moderni.

Prodotto dalla United Artists, Luci della città è un film che ha conosciuto negli anni numerose revisioni in fase di sceneggiatura (in origine, doveva essere incentrato su un clown cieco e sua figlia), nonché una lavorazione complessa, fra la ricostruzione in studio della città e alcune scene particolarmente difficili da girare vista l’assenza dei dialoghi. Scritto e sceneggiato dallo stesso regista, ha come protagonista un vagabondo (Charlie Chaplin), che si muove in un’anonima metropoli fra le situazioni più assurde. Un giorno conosce una fioraia cieca (Virginia Cherrill), la quale, sentendo sbattere la portiera di un’auto mentre lui le passa accanto sul marciapiede, lo crede un milionario: l’uomo se ne innamora, e compra un fiore da lei.

La sera stessa, il vagabondo salva la vita a un vero milionario ubriaco che stava per suicidarsi, e questi per ringraziarlo lo conduce per una notte nel suo mondo, prima in casa e poi a una festa, regalandogli anche dei soldi e prestandogli la sua macchina. Grazie a queste inaspettate ricchezze, il vagabondo corteggia la fioraia, che ricambia il suo amore. Ma l’animo del riccone è mutevole e, una volta passata la sbornia, caccia in malo modo il suo salvatore, che si trova così a compiere i lavori più umili, deciso a trovare i soldi per curare la donna dalla cecità. Dopo alterne disavventure, i due innamorati si incontrano di nuovo: la fioraia ha riacquistato la vista, e scopre che il suo benefattore non è un milionario bensì un vagabondo, ma l’amore rimane immutato.

Luci della città è un film complesso e stratificato, un capolavoro leggibile a vari livelli. È innanzitutto una struggente poesia d’amore fra due personaggi soli e poveri, una commovente ode alla vita che ancora a distanza di tanti anni conserva intatta la sua immortalità, la sua capacità di emozionare solo con gli sguardi e la musica – fin dai titoli di testa, il film è definito una pantomima, genere che per Chaplin è superiore al cinema parlato. E in tal senso Luci della città si pone anche come una sfida al sonoro (al quale Chaplin resiste ancora eroicamente), poiché la regia deve creare numerose sequenze di grande impatto emotivo senza ricorrere all’ausilio della parola. Significativa e magistrale, in tal senso, è ad esempio la difficilissima scena del primo incontro fra il vagabondo e la fioraia, scena in cui Chaplin deve far capire senza i dialoghi che lei è cieca e lo confonde per un milionario.

È un cinema fatto tutto di sguardi e di dettagli, di campi e controcampi, è un uso emotivo delle immagini che si fa pura poesia visiva, sostenuta da una colonna sonora particolarmente malinconica; una poesia che si ripeterà nei numerosi incontri fra i due e tornerà specularmente nel commovente finale, intriso di amore puro e platonico: quando cioè la ragazza ha riacquistato la vista, e capisce l’identità del suo benefattore solo toccandogli la mano. I pannelli coi dialoghi scritti sono ridotti al minimo, e Chaplin manifesta i sentimenti con un uso archetipico e primigenio delle immagini e della musica, confermandosi un genio assoluto della storia del cinema.

Come si diceva, in Luci della città il comico e il melodramma si mescolano in modo sublime, per cui la storia d’amore si alterna con gag esilaranti e surreali tipiche della slasptick comedy, sfruttando la fisicità elastica del protagonista. Il film inizia per esempio con il vagabondo steso su una statua appena inaugurata dalle autorità cittadine, che si esibiscono in buffi versi quasi animaleschi coi quali Chaplin sbeffeggia in un colpo solo tanto il Potere quanto il cinema sonoro. Poi seguiamo il protagonista nei goffi tentativi di salvare l’aspirante suicida, le magnifiche scene comiche in casa del milionario e alla festa – pensiamo a quando inghiotte un fischietto e inizia a sibilare, un altro degli effetti sonori di cui si diceva – fino a una serie lunghissima di disavventure. Prima lo vediamo nei panni di un netturbino (bellissima la scena in cui un uomo inghiotte del sapone e inizia a fare bolle con la bocca), poi come sfortunato pugile, infine ancora in casa del milionario, quando viene scambiato per un ladro e portato in prigione. La colonna sonora, composta per la prima volta dallo stesso Chaplin, riflette bene le due anime del film, quella più lirica e malinconica della storia d’amore e quella più brillante e vivace delle gag comiche.

Sullo sfondo di City Lights c’è poi tutta quella componente di critica sociale di cui parlavamo all’inizio, dove l’elemento comico si unisce a spunti di riflessione per niente banali e che saranno poi alla base di Tempi moderni. C’è un’aspra critica alla società capitalistica, con il milionario affetto da una sorta di ambivalenza schizofrenica che talvolta abbraccia e talvolta respinge il vagabondo, simbolo del proletariato. Ampio spazio è concesso alle scene in cui il vagabondo sperimenta la vita del ricco (cioè il sogno del benessere in un’epoca di povertà), dalla quale però finisce inevitabilmente per essere escluso. E c’è l’eterna lotta di classe fra i due mondi inconciliabili, un universo dove l’unico sentimento puro si rivela essere l’amore, in grado di superare le barriere sociali.