Lo scorso 5 febbraio è morto il grande Kirk Douglas. Classe 1916, una ventina d’anni più giovane del cinema stesso, ha lavorato con tutti i più importanti autori hollywoodiani e ricoperto quasi ogni ruolo possibile sul set. Attore estremamente versatile, capace di passare dallo spietato gangster di Le catene della colpa alla parodia dello stesso in Oscar – Un fidanzato per due figlie, Douglas ha attraversato trasversalmente sessant’anni di storia del miglior cinema. Vale la pena citare anche, per puro spirito patriottico, che recitò anche in Italia in varie occasioni, la più importante delle quali fu nei panni di Ulisse nell’omonimo film di Mario Camerini, uno dei maggiori successi commerciali della storia del cinema italiano.

Di tutta la sua invidiabile carriera meritano particolare attenzione, a mio parere, quattro film in cui emergono non solo le sue qualità attoriali, ma anche quelle umane. Oltre a finanziare strutture per anziani e senzatetto, Kirk ha infatti dimostrato un grande impegno sociale, specialmente contro la discriminazione degli afroamericani e contro il maccartismo che negli anni '50 gravava sul cinema come un tribunale dell’inquisizione.  Non sembra un caso, dunque, che a dare un forte impulso alla sua carriera fu L’asso nella manica di Billy Wilder, in cui Douglas interpreta un giornalista senza scrupoli, Charles Tatum, che arriva a causare la morte di un uomo per lucrare sulla faccenda. Un’accusa feroce contro la spettacolarizzazione delle tragedie perpetrata dai media, una storia che parrebbe esageratamente artificiosa se non fosse basata su un fatto di cronaca. Douglas incarna magistralmente il suo personaggio in tutte le sue sfaccettature: quando assetato di fama prende sadicamente il comando delle operazioni di salvataggio, mentre finge di rassicurare la vittima dell’incidente e soprattutto nel finale in cui capisce la gravità delle sue azioni e muore, simbolicamente, sotto la scritta “Tell the truth”.

A pochi mesi di distanza Douglas interpreta un altro personaggio che trova redenzione nella morte, cinico quanto Tatum: il detective McLeod di Pietà per i giusti. La differenza fra i due è che McLeod presenta oltre ad un carattere duro, una fragilità emotiva dovuta a problemi col padre. La veemenza con cui si accanisce sui criminali è bilanciata da crisi isteriche che ne accentuano i tratti infantili. Douglas dà vita ad un personaggio di raro spessore nel panorama poliziesco, un frustrato che combatte i propri traumi riversando le ingiustizie che crede di aver subito sulle persone che arresta, un poliziotto che punisce più che proteggere. La sua crescita psichica si è arrestata impedendogli di diventare del tutto adulto e questa dinamica è resa particolarmente evidente nell’acerbo rapporto con la moglie. Nella lunga scena del loro ultimo incontro Douglas riesce ad esprimere un ventaglio ricchissimo e particolareggiato di emozioni altalenanti e contrastanti, che spaziano dal conflitto interiore alle difficoltà interpersonali, che muovono il personaggio a riconsiderare sé stesso e l’importanza, anche nella sua professione, del perdono.

Nei due film di Kubrick a cui ha partecipato la metamorfosi è completa, interpreta uomini non più in crisi, ma con una solida e stabile bussola morale. Nei panni dell’idealista colonnello Drax in Orizzonti di gloria si imbarca nell’impresa di salvare dall’esecuzione tre militari accusati ingiustamente di essere disertori. In questo capolavoro antimilitarista a pagare le conseguenze della guerra sono i soldati, sterminati dagli ordini scellerati di generali arrivisti o sacrificati da questi stessi per coprirne gli errori. Il primo “disertore” è scelto perché ha osato denunciare i soprusi dei superiori, il secondo viene bollato dai suoi commilitoni come socialmente pericoloso (evocando forse un riferimento al maccartismo) e il terzo, scelto a caso, rimane vittima della logica spersonalizzante della trincea per cui una persona vale l’altra quando è diretta al macello. L’arringa di Drax è insufficiente a salvare i tre uomini, ma il messaggio contro la guerra, peraltro a pochi anni dalla fine della guerra di Corea, è talmente incisivo che il film viene bloccato in vari paesi.

In Spartacus Douglas, nella veste di produttore esecutivo, ha il potere di attuare scelte rischiose come accreditare la sceneggiatura a Dalton Trumbo, obbligato a trasferirsi in Messico e lavorare sotto pseudonimo a seguito della iscrizione nella Hollywood blacklist, e permeare l’opera con un’aperta critica al già citato sistema maccartista, incarnata nel film da Crasso. Nei panni del condottiero sovversivo, dello schiavo che sfida l’impero Douglas regala la migliore interpretazione della storia del kolossal storico. Mi piace ricordarlo così, quando libero dalle catene incita il popolo a ribellarsi e lottare per la libertà; Kirk Douglas, non Spartaco, anche se a ben vedere la differenza non è molta.