Così come Jafar Panahi raccontava il proprio vissuto di esiliato in Gli orsi non esistono (2022), così Mohamed Jabaly, regista palestinese, racconta la propria situazione in Life Is Beautiful. Ma le similitudini tra questi due film non si fermano qui: così come il film di Panahi diventava una riflessione sul potere delle immagini, la stessa cosa fa la pellicola di Jabaly, forse con una minore raffinatezza, ma pur sempre con grande consapevolezza.
Mai come oggi Life Is Beautiful è un film estremamente attuale; i fari che si sono riaccesi sulla Palestina negli ultimi mesi rendono inevitabile ricollegare questo film all’attualità. Ma questo legame diventa ancora più evidente in un momento preciso del film, quando una comunità internazionale di cineasti unisce le forze per una causa superiore: in quel momento Life Is Beautiful sembra voler denunciare la mancata presa di posizione della comunità internazionale nei confronti del conflitto a Gaza.
Nello specifico, il film ripercorre le vicissitudini di Jabaly, il quale, dopo aver partecipato nel 2014 a un festival in Norvegia, scopre che i confini di Gaza sono stati chiusi e che quindi non può più tornare a casa. Per i successivi sette anni, Jabaly cerca di ottenere con grande difficoltà un visto per restare in Norvegia. Life Is Beautiful racconta questi sette anni della vita di Mohamed Jabaly utilizzando le clip che lo stesso Jabaly ha raccolto nel suo periodo di esilio.
Le difficoltà nell’ottenere il visto diventano parte della sua routine quotidiana, a cui partecipano anche le persone che ha conosciuto in Norvegia – la sua nuova famiglia. Questo conflitto si trasforma presto in un conflitto tra il singolo e lo Stato, uno Stato dipinto come freddo, materiale, disinteressato all’individuo e alla sua identità. Dall’altro lato, questo individuo continua a lottare utilizzando lo strumento che padroneggia meglio: la videocamera.
Ma questo conflitto è secondario, così come secondario è il percorso di integrazione di Jabaly all’interno della comunità norvegese che lo ospita. Ciò che conta più di tutto in Life Is Beautiful è il racconto del cinema come megafono verso il mondo intero. In una scena nella prima parte del film, ambientata durante le riprese di Ambulance (2016), documentario con cui Jabaly racconta i conflitti a Gaza, il regista esplicita il potere che lui attribuisce a quelle riprese. Riprendere quegli eventi è un modo per fissarli nel tempo, nella memoria, e renderli globali, offrirli al pubblico così da rendere universale una questione locale.
E l’intero Life Is Beautiful diventa uno strumento per perseguire il medesimo obbiettivo: questa pellicola racconta l’esilio di un uomo e la sua impossibilità di riabbracciare i propri cari, qualcosa che non si lega esclusivamente alla Palestina – in fondo, i riferimenti alla situazione di Gaza sono ridotti al minimo indispensabile – ma che parla a un pubblico potenzialmente globale. La sofferenza di Jabaly diventa la nostra sofferenza, perché riporta alla nostra mente sensazioni che abbiamo già vissuto e che, soprattutto nelle scene in cui il protagonista parla in videochiamata con i suoi famigliari, sembrano fare leva sul trauma collettivo della pandemia.
Ma nel complesso, Life Is Beautiful non racconta solo il potere del cinema, ma dei media in generale. I media permettono a Jabaly di rimettersi in contatto con la Palestina anche se è lontano; gli permettono di parlare con la sua famiglia e, soprattutto, gli permettono di lottare per la propria causa e di trovare degli alleati in questa lotta.
Anche se in alcune sequenze Life Is Beautiful rischia di farsi percepire come una semplice riproposizione di fatti, ciò che rende questo film notevole è proprio il modo in cui riflette sul proprio mezzo. Il film di Mohamed Jabaly non è un film sulla Palestina, né un film sull’esilio. È un film su come i media possano rendere vicine realtà apparentemente lontane e su come, oggi più che mai, i mezzi di comunicazione non siano solo presenze occasionali all’interno delle nostre vite, ma siano piuttosto componenti fondamentali della nostra quotidianità.