Quando giunse la notizia dell’Oscar alla carriera assegnato a Lina Wertmüller, i cinefili veri o presunti si sono scatenati. I lodatori esaltarono il pionierismo di una donna che si è affermata in un mestiere prevalentemente maschile. I detrattori sostennero che tre o quattro buoni film non giustificano il premio a una regista mediocre e sopravvalutata. Forse la semplificazione è eccessiva e non bisogna escludere anche una vaga misoginia di fondo (la stessa della quale è stata frequentemente accusata Wertmüller, in primis dalla potente Pauline Kael). La critica italiana è stata spesso severa con lei, ma certo non si può dire altrettanto del sistema mediatico che continua a coccolarla con interviste, ospitate, omaggi, agiografie.

Cerchiamo di fare ordine, oggi che Lina non c'è più. L’Academy la celebrò anzitutto per l’incidenza culturale di quattro film realizzati tra il 1972 e il 1975, tuttora molto amati: Mimì metallurgico ferito nell’onore, Film d’amore e d’anarchia, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto e Pasqualino Settebellezze. Significativo che, incastonato nel poker, ci sia Tutto a posto e niente in ordine, interessante corale operaia nascosta dai successi internazionali. A Wertmüller fu riconosciuto quello statuto d’autore negatole in Italia solo quando la critica americana si innamorò del suo talento iconoclasta e dello spirito selvaggio con cui raccontava i conflitti sociali, i turbinii sentimentali, il sesso, la politica, il passato oscuro della nazione. E certo all’epoca destava stupore che a realizzare questi film fosse una donna.

Massima gloria: le quattro candidature all’Oscar per Pasqualino, disperata discesa agli inferi di un uomo senza qualità, che lo resa la prima donna candidata per la miglior regia. Tanto basta per spiegare la scelta dell’Academy, al netto di un proseguimento di carriera instabile negli esiti ma soprattutto non all’altezza della sua fase più feconda, quando riusciva a intercettare i cambiamenti del costume per poi reinventarli in chiave grottesca. Ecco, se c’è qualcosa di davvero interessante da studiare è proprio questo: perché il suo cinema diventa, in definitiva, così irrilevante?

In un certo senso era comunque difficile ricreare la stessa formula magica che regge la terna di film interpretati da Giancarlo Giannini e Mariangela Melato: ne è dimostrazione La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, fallimentare tentativo di esprimere il Lina’s Touch con i mezzi americani garantiti dalla Warner – Candice Bergen compresa – e Giannini, giornalista comunista, che disegna falce e martello sui pali di New York. Evoluzioni eversive della commedia all’italiana, i suoi film migliori cercano di unire la dimensione satirica a quella surreale e, pur con la specificità di uno sguardo autonomo, da una parte dilatano la prospettiva del Pietro Germi siculo (le parentele stilistiche con il dittico Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata) e dall’altra mettono a frutto la lezione di Fellini.

Del maestro riminese Lina fu assistente in 8 ½ e la prima parte della sua carriera è del tutto dentro il ripensamento del fellinismo, a partire dal debutto I basilischi, cover lucana de I vitelloni realizzata con i tecnici di Fellini (Gianni Di Venanzo e Ruggero Mastroianni), e l’episodio circense che gioca con La strada nell’antologico Questa volta parliamo di uomini, per certi versi uno dei primi atti femministi del cinema italiano. Con Nino Rota compone il suo capolavoro, il musical televisivo Il giornalino di Gian Burrasca, ritrovando poi il corpo e la verve di Rita Pavone (ricordiamolo: una diciannovenne che interpreta un ragazzino…) in Rita la zanzara, da leggere come superamento del musicarello e suggestione sessantottina e, specie nel suo pur debole sequel Non stuzzicate la zanzara, parafrasi del fellinismo stesso, complici Giulietta Masina e un décor alla Piero Gherardi curato da Enrico Job, storico compagno della regista.

E come Fellini gioca a fare il western all’italiana dentro Toby Dammit, ecco che lei ne dà una versione sessantottina con Il mio corpo per un poker ovvero The Belle Starr Story, film tra i suoi più segreti per il recupero del tema androgino (Elsa Martinelli vestita da uomo e con le lentiggini della Pavone), il ribaltamento del maschilismo, la definizione di uno stile fatto di zoom e barocchismi, l’ipotesi musical sempre presente. Dopotutto la musica serpeggia sempre in film dominati da una creatività esplosiva, sostenuti da una regia pericolosamente sopra le righe, che si eccita nei grandangoli e nei primi piani: si pensi alla spettacolare sceneggiata, tra Pasquale Squitieri e Mario Merola, Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti (titolo internazionale: Camorra).

Non a caso, dopo la consacrazione, i problemi subentrano proprio perché sembra in difficoltà nel misurare una forma sempre più ridondante, sottolineata dal vezzo del titolo chilometrico. S’infiacchisce l’estro, che si ancora ai “grandi temi” (la droga nel Complicato intrigo, l’Aids di In una notte di chiaro di luna, la banca dei poveri in Mannaggia alla miseria!) o ai bestseller (Io speriamo che me la cavo, Ninfa plebea), cercando di riproporre antichi modelli in nuovi contesti, dallo pseudo-Travolti di Notte d’estate con profilo greco… a Metalmeccanico e parrucchiera, triangolo all’alba della seconda repubblica memore di Mimì.

Non mancano pezzi imbarazzanti (Fatto di sangue tra due uomini per causa di una vedova…, Sotto… sotto… strapazzato da anomala passione, Peperoni ripieni e pesci in faccia) così come le scintille: la bizzarra ronde sugli anni di piombo di Scherzo del destino…, il confronto con Eduardo in Sabato, domenica e lunedì, l’inattuale commedia di corte Ferdinando e Carolina, la brillante fuga mélo Francesca e Nunziata. Poi, se si vuole dare retta al sommo Nanni e alle sue idiosincrasie, avanti, c’è posto. Ma, senza pregiudizi né con l’ansia della rivalutazione, sarebbe il caso di cominciare a riflettere sul lavoro di questa regista.