Limpidissime e pure come sono, le immagini di Mizoguchi plasmano una realtà in cui uomo e arte tendono alla natura, divengono lentamente natura, verificandosi una specie di “transfert”, un’identificazione tra l’io e ciò che è oggetto di osservazione. In L’intendente Sansho queste miti dissolvenze coesistono tra personaggi ormai figli di nessuno, in balia di un destino che li porterà agli antipodi di loro stessi, annegando – letteralmente – il loro dolore in un mondo naturale che sembra essere l’unico, seppure irrazionale appiglio salvifico.

C’è del lirismo in questo racconto corale di Mizoguchi, percepibile, principalmente, nel modo in cui ogni carattere è sviscerato e spolpato, con un voyeurismo che si attua nella più assoluta discrezione formale e stilistica. Sembra quasi sussistere una corrispondenza semantica tra l’ossequio che determinati personaggi conservano tra di loro nel racconto e il rispetto, o per meglio dire, la compassione che il regista nutre nei loro confronti; insistendo sulla disperazione di Tamaki, madre depredata di casa, patria e affetti cui il suo stesso essere al mondo era votato e dilatandone i momenti di maggiore pathos nostalgico e rimembranza inattuabile, Mizoguchi eleva quella specifica esperienza ad un livello più alto, andando dal percepito all’intellegibile, dal particolare all’universale.

E da ciò si chiarifica la sua netta preferenza per un ambiente naturale romantico, nello stesso tempo lugubre ed esotico, immenso e melanconico dove l’uomo, in tal caso Tamaki con il suo lamento di dolore che ricorda vagamente il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia o la condizione del Monaco in riva al mare di Friedrich, guarda all’infinito avendo coscienza della propria limitatezza. Infondendo un’atmosfera di panica religiosità, in cui è come se il sistema nervoso degli uomini si prolungasse nelle fibre delle piante e negli anfratti marini, per usare una delle tante condizioni d’esistenza del panismo dannunziano, Mizoguchi coglie i personaggi nel loro frammentario perdersi e ritrovarsi in un racconto dall’impianto non dissimile dal canone del poema epico in cui ad avere complessità e significato sono piuttosto lo slancio eroico e la volontà di redimersi dall’oppressione.