A causa di una terribile virus influenzale viene emanato un decreto d’espulsone di massa per tutta la popolazione canina di Megasaki City. Corre l’anno 2037 e il Giappone non è più un paese per cani. Il corrotto sindaco Kobayashi - doppiato dal co-sceneggiatore Kunichi Nomura - attua una vera e propria segregazione raziale, è il caso di dirlo visto che i gatti non vengono perseguitati, ai danni di quello che una volta era “il miglior amico dell’uomo”. Esiliati in una piccola isola colma di rifiuti i quadrupedi cercano di sopravvivere come possono racimolando qualche avanzo di cibo dai sacchetti dell’immondizia. Un giorno Atari Kun, il giovane nipote del terribile sindaco, atterra su Trash Island a bordo del suo piccolo aereo, determinato a ritrovare il suo migliore amico Spots - dog zero - il primo quadrupede ad essere stato deportato sull’isola. A supportarlo nell’ardua impresa interviene un piccolo branco di (neo)randagi composto da Rex, Boss, Duke e King. Nel frattempo in città un team di intrepidi attivisti pro dog, capitanati dalla battagliera studentessa americana Tracy, manifesta contro le politiche razziste attuate dal governo. Riusciranno le forze ribelli a ribaltare la terribile dittatura Kobayashi e liberare L’isola dei cani?
Lo scorso febbraio il film ha aperto la 68ª edizione del Festival Internazionale del cinema di Berlino aggiudicandosi l’Orso d’argento per la miglior regia. Wes Anderson, che aveva già inaugurato la kermesse tedesca nel 2014 con Grand Budapest Hotel, porta avanti una riflessione sociopolitica intrapresa nel 2009 con Fantastic Mr. Fox - liberissimo adattamento della fiaba di Roal Dahl Furbo, il Signor Volpe - attraverso la metafora del mondo animale. Una storia, girata in stop motion - tecnica d’animazione composta da tanti piccoli scatti fotografici che diventano video solo in fase di montaggio - sull’autoaffermazione e la conquista della dignità di un gruppo di (pelosi) perseguitati. Un universo andersoniano al quadrato, sovrappopolato, scombinato e affollato oltre ogni limite eppure al contempo disciplinatissimo. Al caos di lunghe sequenze gremite di personaggi infatti l’autore texano alterna sapientemente inquadrature pulite, tese a valorizzare ogni singolo elemento narrativo, senza mai sfociare nell’(auto)citazionismo sterile. Girato fra i London’s 3 Mills Studios e il Babelsberg di Berlino, il film integra anche una componente di tradizionale disegno a mano che emerge nelle esilaranti sequenze da cartoons in cui i cani si azzuffano fra di loro sollevando una sorta di spessa nuvola di cotone.
L’isola dei cani è un film perfettamente plasmato secondo l’estetica contemporanea giapponese, un mix fra iperfuturismo e tradizionalismo. Anderson, in equilibrio fra sofisticata estetica compositiva ed istanze sociali, sembra aver trovato la sua vera cifra stilistica attraverso un egregio e puntuale lavoro di ricerca, distante anni luce dalle superficiali operazioni di turismo culturale che hanno caratterizzato in passato molta produzione d’oltreoceano. Dai referenti cinematografici dichiarati come Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki, fino ai maestri dell’ukiyoe (letteralmente “immagini del mondo fluttuante”), l’arte tipica della stampa su carta o legno di cui a Katsushika Hokusai è il più celebre esponente. Il ritmo narrativo è scandito da continui flashback ironicamente segnalati da simil-cartelli pubblicitari che, irrompendo estemporanei sullo schermo, generano un meccanismo di fruizione a singhiozzi a prova di assopimento. Emerge con forza il vero spirito della cultura nipponica, da sempre spiccatamente iconografica, avvezza a delegare al disegno una vera e propria funzione sociale; dai menù dei ristoranti dove ogni pietanza è rigorosamente raffigurata, alle avvertenze e divieti sui trasporti pubblici restituiti sotto forma di comics.
La componente eteroglossica, su cui poggia l’intera narrazione, da vita a un effetto di straniamento per lo spettatore occidentale avvezzo al colonialismo linguistico anglofono pari a quello provato dalle bestiole di fronte agli sproloqui dei loro bipedi padroni. Infatti mentre tutti i cani parlano in inglese, gli umani non solo lo fanno in giapponese, ad eccezione ovviamente della studentessa americana, ma la maggior parte delle loro conversazioni non vengono tradotte. Un cast stellare da voce a questa ricca galassia di personaggi: Scarlet Johansson, Tilda Swinton, Bill Murray, Greta Gerwig, Frances McDormand, Liev Schreiber, Bryan Cranston, Bobo Balaban, Harvey Keitel e Yoko Ono, ovviamnte nei panni di una saggia scienziata che combatte dall’interno del suo laboratorio per ribaltare il sistema costituito. La colonna sonora curata da Alexandre Desplat è perfettamente in linea con la ricercatezza stilistica dell’intera operazione, le influenze jazz e taiko drumming si alternano nientemeno che alle splendide melodie del compositore russo Sergej Prokofiev.